martedì 28 agosto 2007

La morte di Manolete, 60 anni fa

Era il 28 agosto 1947, a Linares celebravano la Feria de San Agustín, nella plaza de toros c'erano il più grande del suo tempo, Manuel Rodríguez Sánchez, Manolete, 30 anni, volto affilato e sguardo triste, e uno dei suoi rampanti eredi, Luis Miguel Dominguin, volto virile e spagnolo che di lì a poco avrebbe fatto impazzire anche Ava Gardner, prima di sposare Lucia Bosè. Il quinto toro della tarde, Islero, 3 anni e 495 kg, era per Manolete: il Califa de Córdoba lo aveva toreato con maestria e gli aveva appena dato la stoccata finale quando l'animale si mosse inaspettatamente per dargli la cornata fatale. Che portò Manolete nella leggenda e la testa di Islero direttamente al Museo Taurino di Siviglia.
Sono passati 60 anni da quella tragica tarde e il matador dallo sguardo triste continua ad essere uno dei più amati. Adesso si discute se Manolete morì per la cornata di Islero o perché nel'infermeria sbagliarono la trasfusione di plasma. E' singolare come i toreri più amati, da Manolete a Paquirri, non muoiano mai a causa del toro, ma sempre per un errore medico. Fatto sta che muoiono e la vita incompiuta li rende leggendari e trasforma le loro gesta nell'epica della tauromachia.
Di Manolete si ricordano le ultime parole: "Come soffrirà mia madre...". Si preoccupò per doña Angustias, mai nome di madre fu più appropriato, ma non per l'altro grande amore della sua vita, Lupe Sino, la bella aspirante attrice da alcuni anni al suo fianco, nonostante fosse detestata dalla madre e dagli amici per avere un passato e per essere libera, repubblicana e rossa. Un paio di volte Manolete dovette chiedere l'intervento del generalisimo Francisco Franco per salvarla dalle galere della dittatura e dopo la morte del suo amante fu costretta all'esilio in Messico. A Lupe amici e manager impedirono di stare accanto all'amato negli ultimi istanti: "Non ha chiesto di te" le dicevano crudelmente. In realtà temevano che lo sposasse in articulo mortis ed ereditasse gli ingenti beni accumulati in una vita dedicata alle corride. La Serpiente, la chiamavano i più vicini a Manolete, che meno comprendevano come avesse potuto perdere la testa per quella donna dall'intenso passato, conosciuta nel leggendario bar Chicote della Gran Via madrilena. Antonio Burgos, il giornalista spagnolo più intriso di Andalusia, tradizioni, corride e flamenco, scrive che nelle coplas che nei tablaos avrebbero raccontato la morte di Manolete, contribuendo alla sua leggenda, si ricorda la tristezza del '47, per "la catástrofe de Cai/la muerte de Manolete", si parla del dolore di sua madre, celebrato anche dalla grande Lola Flores nelle sue prime esibizioni, "Angustias Sánchez, qué pena, pena,/malhaya el toro que lo mató,/y no poder con tus besos/contener aquella hería/de aquel hijo de tu alma,/sangre de tu corazón..." (Angustias Sanchez, che pena, pena/maledetto il toro che lo uccise/e non potere con i tuoi baci/contenere quella ferita/di quel figlio della tua anima/sangue del tuo cuore...). Ma una sola copla si ricorda di Lupe, senza mai chiamarla per nome "La novia de Manolete/ya no lleva más collares/porque Manolete ha muerto/en la plaza de Linares" (La fidanzata di Manolete non porta più collane perché Manolete è morto nella piazza di Linares).
La storia d'amore di Manolete e Lupe, il triangolo impossibile con doña Angustias e il torero diviso tra i suoi due amori, sono stati portati al cinema da Menno Meyers, con Adrien Brody nei panni del torero e Penélope Cruz in quelli della sua amante. Non si sa ancora quando il film uscirà nelle sale, ma tutti sanno che Brody è stato preparato al ruolo da Cayetano Rivera Ordóñez. "Chi era Manolete? Per spiegarlo ti dico solo che in Messico hanno costruito una plaza de toros da 50mila posti solo per lui: lo voleva vedere così tanta gente che la plaza esistente non bastava più" mi ha detto una volta.
Non amo le corride, anche se ne subisco il fascino con la consapevolezza straniera di chi non è parte della cultura rurale, popolare e aristocratica di cui sono espressione. Dunque, per spiegare chi era Manolete, preferisco queste righe dell'ABC, quotidiano conservatore madrileno, scritte per i 60 anni dalla tragica tarde di Linares: "Colpiva la sua quiete, la vicinanza al toro di profilo e il suo profilo, l'aura degli esseri diversi. [...] Gli appassionati inclinarono per il manoletismo. Si divisero, più che per il tandem formato da Arruza e Manolete, per la sensazione che si rompevano le regole del toreo clasico, di cui un angelo biondo del quartiere sivigliano di San Bernardo, Pepe Luis Vázquez Garcés, riuniva l'essenza. Ma senza la regolarità che colpiva di Manolete, fosse il toro che fosse. La rivoluzione era in marcia. Il popolo riempì le plazas. Tirava fuori i soldi da dove non ce n'erano. El Monstruo portava uno stile nuovo, costruiva le basi della seconda colonna vertebrale dell'evoluzione delle corride dopo Juan Belmonte: la vicinanza, fare tutto in un palmo di terreno. "Se l'anteguerra è dominato da Domingo Ortega, se ne insignorisce Manolete" scrive Pepe Alameda. E lo stesso concetto di Ortega, di colpire il toro camminando, scade al lato del cordobese, anche se resiste nel tempo come unico rappresentante dei toreri di una tappa meravigliosa. Raccontano i vecchi che una volta il saggio e anziano matador di Borox consigliò a Manolete come colpire il toro e il figlio di doña Angustias rispose seccamente: "Maestro, mentre lei fa questo io l'ho già colpito dodici volte con la sinistra". Se Belmonte si ferma e aspetta, Manolete fa dell'estrema vicinanza al toro la sua bandiera".