sabato 4 aprile 2009

La vera Andalusia: sul lato occulto della luna

Su Magazine, il supplemento domenicale di vari quotidiani spagnoli, tra cui il Diario de Sevilla, c'è uno speciale dedicato all'Andalusia. Si intitola Andalucia en el alma e, siccome è quello che succede a me da quando ci sono andata per la prima volta, non per niente Siviglia è la città de mi corazón, invito chiunque abbia l'Andalusia nell'anima a visitare la pagina web di Magazine, che riporta foto e ritratti andalusi. L'articolo che mi è più piaciuto è quello introduttivo, forse perché mi piace leggere come si vede un popolo, aldilà degli stereotipi con cui lo raccontano gli altri. Mi piace questo ritratto dell'Andalusia che non ci sta ad essere l'arretrata e polverosa di Spagna e che rifiuta di essere la graciosa, quella che fa ridere per il modo di parlare e di essere, e l'allegria che le attribuiscono a tutti costi. La cosa che mi piace di più, effettivamente, è che l'autore sottolinei una volta per tutte il rifiuto al topico che più etichetta gli andalusi: che sono allegri. Para nada, come direbbero loro, per niente. Fa riflettere anche come ricorda le tre civiltà che continuano a inseguirsi in questa punta d'Europa rivolta all'Africa e all'America. Un bel ritratto, un po' rabbioso e molto consapevole, di quello che l'Andalusia rappresenta per l'anima spagnola e anche per quello che rappresenta per le migliaia di persone a cui ha rapito il cuore. Ovviamente sono nella lista.
Traduco l'articolo in italiano, chi legge lo spagnolo, lo trova qui
PS Bellissime anche le foto che illustrano l'articolo, ho rubato quelle dell'Alhambra e del ponte di Ronda, perché mi ha colpito l'aria sinistra che dona loro la luce scura, in genere trascurata, ma decisamente molto più intrigante. Ah, le mille anime dell'Andalusia!

Eredità di tre civiltà
di Antonio Soler
Troppe Andalusie. Troppi substrati archeologici e mentali, troppe mescole per definirli in un quadro e con poche pennellate. Forse per questo si ricorre agli stereotipi con tanta facilità, fuori e dentro la stessa Andalusia. Ma succede che in questo caso lo stereotipo equivale all'orrore. Soprattutto se consideriamo che si tratta di una caricatura che deve rendere conto di un'identità in cui sono coinvolti i fenici, Góngora o Juan Ramón Jiménez (il primo, drammaturgo del XVI secolo, il secondo, poeta della generazione del 98 NdRSO), Seneca, Roma, gli invasori arrivati dalla Siria con tutta la loro scienza e la loro depurata filosofia medievale o Luis Cernuda. Neppure vale l'antiquata parodia dell'allegria con cui ci etichettano continuamente. Questo non è un popolo allegro. In tutti i casi potrebbe dirsi che è edonista. C'è differenza. Tanta come quella che esiste tra un abulico e uno stoico. O può essere che questa sia una terra di estremi e che qui vadano per mano la raffinatezza dello squisito e la volgarità dell'ordinario. E può essere anche che l'ordinario ci stupisca improvvisamente con un lampo di eleganza, come un fiore nel fango, e che all'aristocratico venga fuori nel momento meno pensato il lato canaglia. In fondo la vita è pura convulsione e qui, nell'Andalusia, si conosce da vicino questo terremoto. I geni e la betoniera biologica, come volete chiamarla, non smettono di correre nelle vene di un popolo inquieto.
Ridotto arabo della Penisola. Omayyadi, nazari. Sultani, turbe guerriere. Cavalieri leggeri, capaci di far impazzire i mastodonti di ferro cristiani. Averroè, andaluso, spianò il cammino alla mente di Giordano Bruno, approfondì Aristotele, diffuse qualcosa di così moderno come la filosofia della conoscenza. Maimonide scrisse un'opera imperitura, la Guida dei perplessi. Così si dovrebbero intitolare tutte le guide turistiche sull'Andalusia. "La libertà è una funzione dell'intelligenza". Questo è uno degli slogan che potrebbero applicarsi al vecchio filosofo e medico del XII secolo, cordobese, precursore remoto di Spinoza. Questo slogan è servito anche a molti andalusi, in epoche molto diverse e anche senza saperlo enunciare né che proveniva dalla terra su cui stavano camminando. Non sappiamo se parte di questa intelligenza e di questo spirito libero ha impregnato i sedimenti di questo popolo, ma è certo che a volte affiora in modo naturale e quasi spontaneo in qualcuno della sua gente. Gente sveglia, mentalmente rapida. Per il bene e per il male. Per la picaresca e l'astuzia o per la creazione e la luce.
C'è una coscienza seria, severa, lavorata durante i secoli, nello spirito andaluso. E c'è anche un'altra coscienza, sfacciata, più recente, un codice di affaristi che prescrive che l'andaluso è spiritoso e che al nascere porta incrostato sul cranio una peineta o un cappello cordobese, dipende dal sesso. Da questi posti, come per esempio alcuni programmi televisivi, si fa credere agli andalusi con minore educazione che la battuta più grossolana o anche la villania sono l'unico cammino dello svago e dell'allegria, quando non della loro stessa cultura. Si è sottratta troppa vita, troppi diritti a questa gente umile che adesso portano in alcuni studi e a cui mostrano un cartello per l'applauso a qualunque raccontatore di barzellette. Ci vendono troppo spesso la volgarità come valore e l'allegria come uno dei nostri segni di identità. Nel nostro stesso mercato, a volte dalla stessa gente che un minuto dopo si riempie la bocca con Lorca e Picasso. Affaristi di questa terra. Forse per questo la battezzano con questa frase banale e che sembra fabbricata per l'uso esclusivo delle brochure turistiche e per arrugginiti reportage giornalistici, terra di contrasti.
Questa terra e questo popolo hanno qualcosa di pendente. "Essere andaluso è non essere andaluso" ha detto Justo Navarro in un incontro di scrittori meridionali in cui si discuteva l'essenza della letteratura andalusa. Poche volte ci hanno definito così bene. La vera natura di questa terra è nel punto più lontano dal convenzionale e dal compreso. L'altro lato della luna. Questo siamo. Sull'altro lato della luna ci sono le fondamenta dell'Alhambra. La ricordata vigliaccheria di Boabdil poteva essere umanesimo. Anche la capacità strategica, bellica e politica, di Gonzalo Fernández de Córdoba, il Gran Capitán, fu chiaramente umanista. Un soldato del Rinascimento, un rivoluzionario. L'uomo nuovo. La cattedrale di Cadice, il quartiere ebraico di Siviglia e anche Doñana hanno le loro fondamenta nel posto occulto di questo pianeta andaluso. Dicono che questo sia stato il paradiso delle tre civiltà. Convissero, più in un purgatorio che in un paradiso, ma impararono a respirare con tre Dei sulle loro teste, vigilando reciprocamente, Dei e uomini, i loro movimenti. La tolleranza faceva parte di questo polmone di acciaio.
E qualcosa di questa tolleranza è rimasta nel genoma. Non importa che dopo siano arrivati i roghi dell'Inquisizione, le espulsioni e il progetto politico di un Paese uniforme per razza e religione. Fortunatamente c'è stata molta gente che non si è bevuta il racconto della purezza ed è rimasta nascosta in questa terra, vivendo. A volte, con poca coscienza di popolo, come un appendice castigliano, povero e sfilato. Di seconda classe. Mangiandosi lettere e sillabe, ridicolizzati e ancora umiliati per la pronuncia, però costruendo una sintassi migliore di quasi tutti. E inventando lingua. Quasi sempre orgoglioso. Qualcosa di tutto questo si può trovare ancora all'attraversare la frontiera di Despeñaperros (il passo che è considerato confine naturale tra la Castiglia e l'Andalusia, usato spesso per indicare l'ingresso in Andalusia e nel sud in generale NdRSO) e arrivare nel sud. Il sud, già si sa questo concetto, e qui finisce l'Europa, qui nasce e si riassume questo concetto. Si palpa in una calle desolata di Algeciras o nelle spiagge di Carbonera. Anche nel midollo di una società moderna, urbana, produttiva, che non perde questo odore che lasciò nell'aria il vecchio Maimonide. La libertà è una funzione dell'intelligenza. Ci sono, sì, molti traduttori, molti interpreti per questa frase, dai ricercatori delle cellule embrionali che finiscono con il rivoluzionare la medicina nel caso di un bambino sivigliano, ai pirati immobiliari del litorale malagueño o gaditano. Ma alla fine, come dappertutto, sono più quelli che creano che quelli che distruggono.
Qui si è fatta tabula rasa troppe volte. Si è fabbricata l'epica con l'umiltà. Gli altezzosi raccoglitori di olive di Miguel Hernández, i vendemmiatori jerezani di Caballero Bold e i suoi Due giorni di settembre. Tanta gente nobile e degna obbligata alla miseria. L'Andalusia ha vissuto la sua particolare età del piombo sotto il franchismo. Ingoiarono ricino tanti anarchici, socialisti, massoni, rossi che agitarono questi paesi e città. Terra semidimenticata, di tamburelli, che ha esportato emigranti in Catalogna e in Belgio. Saio sotto cui nascondere la vergogna nazionale. Benvenuto mister Marshall. La maschera.
Tutto va rimanendo indietro, lentamente. Nonostante tanta memoria, qui imperano il presente e il futuro. Parchi tecnologici, treni ad alta velocità, istituti di innovazione e questo viavai che non si ferma mai, questa alluvione permanente di turisti e anche di viaggiatori che si perdono nei misteri della provincia di Almeria o risalgono il Guadalquivir in una barca notturna. Quei commercianti inglesi che vennero e rimasero qui per sempre, come se questo fosse un nuovo angolo esotico e variopinto del Commonwealth. Questi tedeschi che si annidano nei monti dell'Axarquía (le colline dietro Málaga NdRSO) o nelle spiagge del litorale granadino vengono alla ricerca di quello che scoprirono quei viaggiatori. Qui si mescolano i privilegiati d'Europa con la turba africana. Nelle stesse spiagge sbarcano zattere e roulotte targate Monaco o Amsterdam.
Adesso i discendenti dei nazaries (la dinastia dei sovrani musulmani di Granada NdRSO) raccolgono pomodori nelle serre di El Ejido, sono i figli di questi antichi guerrieri, filosofi e matematici quelli che lavorano nelle serre di Almeria o nei campi di fragole di Huelva. La betoniera continua a girare, instancabilmente. Qui si conosce già da molto tempo questa mescolanza che sarà il segno di identità del nuovo mondo. Vengono di nuovo altri dei, usi, lingue e culture. Qui si sa già fare questa somma. La questione basilare è non sottrarre. Lo abbiamo imparato e conviene non dimenticarlo. Da una pianta cristiana alzarono una moschea, e su di essa di nuovo un tempio cattolico. Le tombe giudee furono vicine a quelle arabe, gli uni e gli altri spostarono le pietre di antichi teatri romani per depositare i loro morti. Nella Caleta di Cadice, per mano di Fernando Quiñones (poeta gaditano NdRSO), ho ascoltato da alcuni marinai alcune lezioni sull'argomento. Esistono accademie anche in alcune tabernas cordobesi, nell'Albaicin o nell'orrido di Ronda. Bisogna solo lasciarsi andare, stare attenti, avere gli occhi aperti. Questa è la scienza di questa terra, imparare a distinguere, come ci ha segnalato Machado, la voce degli echi. L'oro del fango.