lunedì 9 novembre 2009

Vent'anni dopo le rivoluzioni pacifiche del 1989


Sono cresciuta in una famiglia profondamente anti-comunista. Negli anni '70 della mia infanzia seguivo le elezioni con le preoccupazioni di mio padre, pronto a "lasciare l'Italia se vincono i comunisti"; la prima volta che gli ho chiesto cosa fosse il comunismo mi ha parlato delle invasioni dei carri armati russi a Budapest e a Praga. Durante la mia infanzia e la mia adolescenza i media parlavano dell'"altra Europa", delle "due Europe" e io mi chiedevo come era l'Europa, quando non aveva aggettivi (una non è mai stata). Quell'altra Europa era come un buco nero, di cui si sapeva pochissimo e di cui i film americani insegnavano ad avere se non paura, diffidenza. Per questo mi ha sempre affascinata, come può farlo ciò che ti è sconosciuto e in qualche modo proibito. Ho sempre pensato che prima o poi avrei conosciuto Budapest e Praga, i due gioielli dell'Impero cui erano appartenute anche Trieste, Venezia e Milano, e che io avevo nel cuore dopo aver letto delle speranze spezzate del 1956 e del 1968. 
Il mio primo viaggio da adulta l'ho fatto intorno ai vent'anni, nel 1988,in Ungheria. Con il Comune di Torino ho visitato Budapest e parte delle province orientali, avendo come base una città dall'impronunciabile nome, Nyiregyhaza. Di quel primo viaggio all'Est ricordo l'eccitazione di vedere finalmente da vicino cosa succedeva "dall'altra parte", la sensazione strana di scoprire che gli ungheresi erano persone come noi, che ridevano, avevano malinconie e non passavano il tempo a pensare come distruggere l'Occidente; ricordo soprattutto due volti, Gabriella, la biondissima guida che parlava l'italiano benissimo, aveva la nostra età e sperava di poter scoprire pure lei, prima o poi, cosa succedeva "dall'altra parte", e il professor Arpad, che pure lui parlava italiano e ci portava a visitare monumenti e castelli dell'Ungheria orientale, insistendo sul fatto che l'Ungheria era una parte d'Europa strappata dalla Seconda Guerra Mondiale e dal comunismo, perché "la storia mi ha insegnato che ci sono popoli fortunati e popoli sfortunati, purtroppo noi ungheresi siamo tra questi ultimi". Ricordo anche l'eccitazione di uno strano pomeriggio in cui siamo arrivati a pochi km dalla frontiera con l'Unione Sovietica: le silenziose e dolci colline che avevo davanti appartenevano a un mondo sconosciuto, misterioso e pericoloso, a suo modo affascinante. Un po' come quando, nelle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, Adriano si allontana dall'accampamento romano, durante la conquista della Dacia, e osserva le grandi pianure sarmatiche, chiedendosi cosa ci sia oltre.
L'anno dopo, nel 1989, ci ho riprovato, tornando ad Est. A Budapest mi muovevo come in casa e sul treno che dall'Ungheria ci portava a Praga chiacchieravo in un tedesco volenteroso con un gruppo di ragazzi tedesco-orientali che tornavano a casa dal Lago Balaton. Anche i ragazzi dell'Est andavano in vacanza. Di Praga ricordo una popolazione sospettosa e per questo lontana, una paura più latente, nelle onnipresenti telecamere, e un ragazzo praghese che dalla stazione ci aveva accompagnato fino a piazza San Venceslao per indicarci, un po' di nascosto, il punto in cui Jan Palak si era dato fuoco. Aveva una voglia matta di comunicare con coetanei occidentali, la lingua non sembrava essere un problema perché tra tedesco e inglese qualcosa riuscivamo a dircelo. Ma bisogna sempre scegliere attentamente i compagni di viaggio: "Mica ci dovremo portare dietro quello?" mi disse uno del gruppo di persone con cui viaggiavo (e che grazie a Dio non ho più rivisto da allora). Così ogni possibile contatto con i praghesi è andato a farsi benedire. 15 giorni dopo il mio viaggio a Praga iniziava la "Rivoluzione di velluto". 
Non so se queste parole possono spiegare l'allegria e l'entusiasmo con cui ho seguito quello straordinario 1989: forse essere intorno ai vent'anni in quell'autunno incredibilmente carico di canzoni, speranze e bandiere, in cui l'Europa ha perso gli aggettivi che la dividevano, ha fatto sì che le emozioni fossero più intense. Ogni 15 giorni, praticamente, cadeva un regime comunista. E senza incidenti, senza repressioni, senza morti. Era così incredibilmente bello. Budapest, Praga, Varsavia che tornavano ad essere città d'Europa. E poi anche Berlino. E dopo addirittura Sofia e Bucarest, che nessuno pensava avrebbero potuto farcela prima dell'inizio degli anni 90. 
Quando i berlinesi hanno iniziato ad abbattere il loro Muro e i tedeschi hanno iniziato a parlare di riunificazione, è stato chiaro che stavamo aprendo una nuova pagina. Vent'anni fa, in questi giorni, ci sentivamo davvero fratelli europei, figli di un solo continente. Si sognava la "casa comune" di cui parlava Mikhail Gorbaciov, si scopriva che i russi non erano i cattivi dei film e che i ragazzi dell'Est avevano la stessa voglia di viaggiare e di sentire musica che avevamo noi. Certo, l'apertura delle frontiere implicava l'invasione di milioni di slavi in cerca di benessere e dignità, c'era chi temeva la Germania di nuovo unita nel cuore del Continente mentre il viso opulento di Kohl ti faceva chiedere come potevano essere pericolosi i tedeschi. Ma erano pensieri troppo razionali per l'euforia di quei giorni, per quella sensazione di nuovo, di ottimismo che bisognava godersi, mentre all'Est una rivoluzione di velluto al mese abbatteva una dittatura e i tedeschi abbattevano il loro muro, si abbracciavano felici di rivedersi dopo 40 anni di divisione e se ne fregavano delle paure di Francia e Gran Bretagna. Non siamo stati all'altezza di quei sogni e di quella euforia. Non lo sono stati i russi, che hanno sostituito Gorbaciov con Eltsin e non hanno saputo evitare con il loro voto la deriva autoritaria del loro Paese. Non lo sono stati gli Europei dell'Est, che non hanno saputo entrare nell'Unione Europea con lo spirito dei padri fondatori e l'hanno vista non come una fonte di ideali comuni ma come una distributrice di finanziamenti. Non lo siamo stati noi Europei dell'Occidente, che non abbiamo più saputo eleggere leaders dalle grandi intuizioni e dalle larghe vedute come furono, nonostante tutto, Helmuth Kohl, François Mitterrand, Felipe Gonzalez, e persino la signora dell'euroscetticismo, Margareth Thatcher. E non parliamo degli statunitensi, che ebbero in Ronald Reagan uno dei grandi artefici del nuovo spirito mondiale (c'è almeno una cosa di cui essere grati al vecchio cow-boy di Hollywood) e sono finiti impantanati nell'Iraq con il figlio del suo vice. 
Però, al rivedere quelle immagini, e avendo lasciato da un pezzo i vent'anni, non posso non continuare a credere che sì, che l'Europa c'è, che ce la può fare. Alla Casa Bianca è arrivato un signore che dice Yes, we can. E ha dimostrato che è vero. Why not, Europa?