domenica 27 febbraio 2011

Perché non si parla della rivoluzione in Islanda?

Tutto è nato dai commenti di alcuni lettori di publico.es, che continuavano a citare il caso islandese come esempio da seguire e come terza via possibile per superare la crisi economica. La cosa che mi ha colpito di più è che parlavano dell'arresto dei banchieri responsabili del disastro del sistema finanziario islandese, il primo a crollare in Europa, sotto la spinta della crisi internazionale. Quale altro Paese è arrivato ad arrestare i suoi banchieri per far pagare loro il prezzo dei loro errori? Di tutti i grandi quotidiani spagnoli, solo Público, nei blog della sua pagina web, ha parlato dei risultati di questa silenziosa e silenziata rivoluzione in corso in Islanda, capace di colpire gli interessi della plutocrazia internazionale. Dei numerosi articoli usciti nel web spagnolo, traduco quello del blogger Isaac Rosa per publico.es e quello di Gonzalo Iglesias Sueiro per il galiziano laregion.es. E' singolare come El Pais abbia recentemente dedicato un articolo all'Islanda, lodando la sua ripresa economica e senza accennare né alle manifestazioni cittadine né alla persecuzione dei banchieri accusati di cattiva gestione delle banche né delle novità costituzionali allo studio.
Se il tema vi interessa, cercate su Google "Islanda" e "rivoluzione", troverete numerosi articoli anche nella nostra lingua. Ovviamente nessuno uscito sui grandi media.

Isaac Rosa per publico.es
Le rivoluzioni sono sempre molto fotogeniche, e adesso si trasmettono pure in diretta. Abbiamo il caso dell'Egitto, la cui lotta contro Mubarak abbiamo visto in tempo reale, con decine di corrispondenti sul posto; e lo stesso succederebbe in Libia, se Gheddafi permettesse l'ingresso dei giornalisti.
Ma le rivoluzioni vengono bene in tele se sono violente. Se non ci sono manifestazioni tumultuose, barricate infuocate, pietrate e gente con la testa aperta, non c'è molto da vedere. Dev'essere per questo che non abbiamo corrispondenti in Islanda e finora nessun telegiornale si è collegato in diretta con le strade di Reykjavik, né nei quotidiani ci sono informazioni quotidiane su questo piccolo Paese del Nord Europa.
Dire "rivoluzione pacifica" suona come un ossimoro, e molti diranno che non è possibile, che è un'altra cosa. Ma gli islandesi sono protagonisti di quello che di più simile si sia visto a una rivoluzione da molto tempo a questa parte in questa zona del mondo, e qui ne siamo appena informati. Sicuramente perché le mediatiche rivolte arabe non hanno rischio di contagio in Europa, mentre la mobilitazione islandese può darci idee pericolose.
Dopo che l'economia dell'Islanda, la bimba prediletta del neoliberalismo, è affondata, nel 2008, con le banche fallite e un debito enorme, i poco più di 300mila abitanti di questa isola nordica sono scesi in strada e l'hanno combinata grossa. E non si sono ancora fermati.
Tra le altre cose sono riusciti a ottenere che il governo si sia dimesso, siano state nazionalizzate le banche, siano stati penalmente perseguiti i banchieri responsabili; hanno rifiutato con un referendum il pagamento del debito delle banche e adesso partecipano all'elaborazione di una nuova Costituzione più democratica e sociale. Se fosse poco, hanno approvato un'iniziativa per trasformare il Paese in un rifugio internazionale per la libertà di stampa, in cui il prossimo Julian Assange potrà lavorare senza essere incarcerato o gli chiudano la pagina web.
Se è vero che la Spagna e l'Islanda non hanno molto in comune. E' un Paese piccolo, isolato, con peculiarità economiche. Ma dopo tanto dirci che non siamo la Grecia né l'Irlanda, uno ha voglia di essere per un attimo l'Islanda.

Gonzalo Iglesias Sueiro per laregion.es
Ho ricevuto un email da un buon amico sulla silenziata rivoluzione islandese, l'unico Paese che in questa crisi si è rifiutato di pagare i debiti delle sue banche e di socializzare le perdite, arrivando a denunciare e perseguire penalmente i banchieri responsabili. Dopo aver letto varie notizie nella Rete sull'attuale situazione dell'Islanda sono rimasto sorpreso. Il Paese, di 300mila abitanti, ha fatto dimettere il Governo, dissolvere il Parlamento ed eleggere con procedimento diretto i rappresentanti che dovranno scrivere una nuova Costituzione. Quello che sta succedendo in Islanda ha per lo meno tanta trascendenza quanta i movimenti di massa dei PAesi arabi, che devono percorrere ancora un lungo cammino per omologare i loro sistemi politici a quella che comunemente si chiama democrazia, con le sue elezioni libere per scegliere i rappresentanti del popolo. L'Islanda va molto più in là: mette in discussione il sistema dei partiti tradizionali, obsoleto e inefficace per dare soluzione ai nuovi problemi, perseguita come delinquenti i responsabili diretti della cattiva gestione bancaria, passa all'elezione diretta dei rappresentanti del popolo, per le loro capacità, onestà e impegno, rompendo la dipendenza dal circolo di potere di ogni partito, iniziando un ocntrollo della ricchezza del Paese con trasparenza e partecipazione cittadina. Il procedimento è in pieno sviluppo e la sua applicazione in altri Paesi quanto meno dubitabile: l'Islanda ha una popolazione di numero ridotto, è energeticamente indipendente, ha infrastrutture limitate, ricchezza peschiera e buone relazioni con altri Paesi nordici, che non verrebbero di buon occhio un intervento straniero.
Ma l'esperienza islandese è fastidiosa, non piace al sistema, nessun media ha diffuso il risultato della rivoluzione, nessuna televisione ha trasmesso immagini, nessun analista finanziario ha parlato del fallimento del FMI nella soluzione del problema, nessuno ha paragonato l'Islanda con l'Irlanda o la Grecia. Un silenzio opaco avvolge tutto quello che riguarda l'Islanda, si è parlato di più del lesbianismo della sua presidente che del referendum di rifiuto del pagamento del debito delle banche e, soprattutto, si sono commentate molto di più le eruzioni del vulcano Eyjafjallajokull e i suoi effetti devastanti sull'aviazione nello spazio aereo europeo.
Ma le ceneri della rivoluzione sociale hanno maggiore trascendenza di quelle vulcaniche: se trionfassero sarebbe nata un'alternativa al sistema finanziario e al dominio quasi assoluto del BM e del FMI. Si starebbe mettendo in moto un'evoluzione del sistema dei partiti con la partecipazione diretta dei cittadini nella proposta dei candidati e un'amministrazione più trasparente. Il Messico fu invaso per meno e la Cina fu colonizzata per la sua insignificanza; erano altri tempi, adesso esiste uno strumento di conseguenze sconosciute, la Rete, e chiunque può farne uso.
Il cambio di ciclo è inarrestabile e notorio, lo testimoniano gli islandesi e come no, Mohammar Gheddafi, che non comprenderà mai (ai dittatori è impossibile), che i principi che portarono alla Rivoluzione Francese nel 1789, mobiliteranno sempre i popoli contro i tiranni e quello che essi rappresentano (ricordiamo che i popoli arabi non hanno fatto la rivoluzione borghese e che la storia si scrive con tutti i capitoli, anche se su scenari diversi).