domenica 13 maggio 2012

Sei anni di aborto legale in Colombia, tra ostilità e Costituzione

A Roma c'è appena stata una marcia del Movimento per la vita contro il diritto all'aborto (Movimento per la vita contrapposto al diritto delle donne, come se le donne non avessero diritto alla vita!); in Spagna è in preparazione una legge che ridurrà drasticamente il diritto all'aborto libero, conquistato durante l'ultiomo Governo di José Luis Rodriguez Zapatero.
Siamo di fronte a un'ondata conservatrice che vuole limitare i diritti delle donne, il loro diritto di scelta libera e indipendente, così mi è venuto in mente questo articolo di Catalina Ruiz-Navarro, pubblicato la scorsa settimana dal quotidiano colombiano El Espectador. In America Latina nessun Paese riconosce l'aborto libero, lo concede solo in determinate circostanze, tra cui la violenza sessuale e il pericolo di vita della madre; nel Cile e nel Nicaragua l'aborto è proibito in qualunque caso, in modo da condannare la donna anche a morte nei casi più pericolosi (giusto perché questi mostri che vogliono impedire alla donna la libertà di scelta difendono la vita). E' un articolo che dice in modo chiaro ed efficace cose che condivido e che ci ricorda come bisogna stare sempre allerta nella difesa dei diritti, perché ci sarà sempre qualcuno, infastidito dalla libertà e dalla possibilità di scelta altrui.
Da elespectador.com

Yolanda aveva chiesto l'interruzione della sua gravidanza all'ospedale Eduardo Meoz di Cúcuta, ma il dottore che l'aveva visitata si era dichiarato obiettore di coscienza. Quando il suo caso è arrivato alla Corte Costituzionale, aveva già 32 settimane di gravidanza. Le hanno realizzato un cesareo urgente e il bambino è morto 5 minuti dopo la nascita.
Ana aveva la Sindrome di Pradder Willy, che limitava la sua capacità mentale a quella di una bambina di 4 anni. Senza che nessuno sapesse come, Ana era rimasta incinta. Al notarlo la madre la portò alla EPS Cosmitet Ltda., perché le realizzassero un aborto, ma il medico che la visitò decise che non c'era modo di dimostrare che Ana fosse vittima di una violenza sessuale. Il giudice di prima istanza negò la tutela richiesta alla madre, il giudice di secondo grado anche, perché era già molto avanzata una gravidanza che Ana ha dovuto portare a termine, contro la sua volontà.
Mariana era stata violentata a Cali ed era andata in ospedale per un aborto, realizzatole, tra le altre cose, nella stessa stanza in cui una donna stava partorendo. Al terminare l'aborto, l'infermiera le lasciò il tessuto del feto sul comodino e le disse: "Vedrà lei cosa fare con questo".
Oggi sono sei anni dalla Sentencia C-355/06, che afferma l'aborto come diritto delle colombiane e che riconosce che non siamo macchine per produrre persone, ma persone, un'ovvietà storicamente passata inosservata in molte culture, che intendono le donne come mezzo e non come fine.
Ma registrare questo su carta non è sufficiente. L'applicazione della Sentenza è stata difficile, al punto che molte donne si vedono maltrattate, stigmatizzate e vittimizzate quotidianamente, in molti casi dai professionisti incaricati di seguirle: medici che si negano a realizzare un aborto, che più che legale è umanitario, e che non le mandano da colleghi con convinzioni meno crudeli, e giudici che, poiché credono in Dio, accettano di usurpare le funzioni di una divinità e decidono destini che non appartengono a loro, ma alle donne.
La Sentencia ha avuto oppositori anche tra chi, per la sua carica, deve garantire gli stessi diritti, come il procuratore Alejandro Ordóñez, ed è stata dibattuta essenzialmente tra uomini, preti e congressisti, che reclamano uteri obbedienti a padri, mariti, Dio e Stato, dimenticando che questi uteri sono parte di un organismo, che, più che organismo, è persona, che pensa e che risponde e che può dire di no. L'anniversario della sentenza coincide anche con l'ostilità verso chi difende i diritti delle donne, azioni violente che impauriscono e distraggono e che più che un attacco personale sono un ostacolo all'autonomia e al libero arbitrio dei colombiani.
Uno vorrebbe che i casi di Yolanda, Ana e Mariana fossero incidenti isolati, ma sono passati molte volte e con molti nomi e obbligano le donne a cercare una clandestinità pericolosa e prima di tutto non necessaria, perché, al di là della discussione morale, che appartiene all'ambito personale, l'aborto è un diritto, guadagnato giustamente, e il cui principale requisito è il rispetto della Costituzione e delle donne.