lunedì 30 giugno 2008

Nelle strade del centro, nei vuoti pomeriggi d'ozio sivigliani

Un torinese dalla mentalità squadrata, di strade diritte, parallele e perpendicolari, in una città di impianto arabo, di vicoletti stretti e fitti, è finito. O ha una mappa nelle sue mani o è perduto. Sembra una stupidaggine, ma è difficile uscire dall'idea che comunque sia, se ci si sbaglia si può sempre prendere la traversa successiva per beccare la parallela giusta. In una città di calles lunghissime, a volte addirittura curve, e senza alcuna traversa per centinaia di metri, è una sfida inconcepibile. E' giusta per disorientarsi e non avere la più pallida idea di dove ci si trova, senza alcun possibile punto di riferimento.
Siviglia è così. Sei all'Arenal, in calle Adriano, vedi una traversa che secondo i tuoi calcoli è una scorciatoia per arrivare al Guadalquivir e no, nada, arriva altrove, che chissà che giro ha fatto per portarti lì. Sei nella calle de los Reyes Catolicos, prendi la traversa a destra, per finire in calle Adriano e da lì al Guadalquivir e nada, sorry dei muy sorry, ma finisci in plaza Nueva, a pochi passi dalla Cattedrale, completamente altrove. Un torinese senza cartina a Siviglia è un turista perduto. O, detto in tutti i sensi, Siviglia è una città per perdersi. E vale la pena.
Ci sono pomeriggi, che assomigliano tremendamente alle vuote domeniche d'ozio veneziane cantate da Francesco Guccini, in cui uno non può stare a guardare la telenovela del pomeriggio. Deve uscire, anche se il caldo è soffocante e giugno assomiglia a un agosto torinese. Siviglia chiama e aspetta.
Si può prendere la prima traversa a caso, con la certezza che non porterà da nessuna parte, ma non importa. Quello che importa è scoprire i dettagli di Siviglia e si arrivi dove si arrivi. Prima o poi si incontreranno, chissà come, un campanile, un incrocio, una facciata familiari e si sarà recuperata la realtà. Non ci sia dubbio su questo.
Così ci si addentra in callezuelas ombrose e fresche, nonostante il caldo. Il patto con le auto è silenzioso, ma efficace: io cammino in mezzo alla strada perché 30 cm di marciapiede non servono a nessuno, ma non ti preoccupare, appena ti sento arrivare salto lesto su queste imitazioni di marciapiede o, meglio, all'interno di un portone, ché fa ancora più fresco. Così, se ho suerte, posso anche vedere i patios ombrosi e frondosi che i turisti americani amano tanto fotografare. E posso tornare a pensare per l'ennesima volta che le loro porte in ferro battuto hanno un'eleganza insuperata. Come i lampioni di gusto ottocentesco, che obbligano ad alzare lo sguardo e scoprire, oltre il cielo azzurro d'Andalusia, anche nuove prospettive. Per esempio, i grandi archi che chiudono l'ultimo piano della casa sorprendentemente rosata in fondo alla strada. Ci si avvicina solo per guardarla meglio e riprendere il proprio cammino, ma la curiosa luce arancionata del patio, a causa dei colori dei muri interni, spinge a infilarsi nel poltrone e dare una sbirciata. Mentre il gorgoglio di una fontanella, da qualche parte, da l'idea del fresco e mette buonumore.
Così ci si addentra in una traversa che non ci si aspetta. Si incrociano solo studentesse che corrono in bicicletta chissà dove e qualche coppia di pensionati nordici, pure loro senza cartina. All'improvviso la via si apre davanti a una chiesa rosa e arancione. Chiusa. Come lo sono quasi sempre le chiese sivigliane. E' Sant'Ildefonso. Poco più in là, nel giardino di una plazuela, un gruppo di ragazzini seduto sullo schienale di una panchina di ferro battuto. Uno di loro, previdente, indossa già la maglia della Roja, come adesso chiamano tutti la nazionale di calcio. Perdendosi e riperdendosi si incrociano vie dai nomi familiari, che continuano ad essere stranissimi. Calle Cabeza del Rey don Pedro, via della Testa del Re don Pedro. Calle Corral del Rey, via cortile del re. Uno si immagina sempre storie truculente e crudeli, in cui rotolano teste di re e di ambasciatori che non portano pena. Ma del resto siamo pur sempre nell'Al Andalus e le sinistre leggende sui tradimenti nei saloni dell'Alhambra, spiegano anche questi nomi di vie sivigliane così peculiari. Chissà come si finisce davanti a un'altra chiesa, San José. Come turisti sperduti si rimane davanti alla sua facciata di azulejos bianchi e azzurri e ci si chiede se sarà aperta. Fino a quando un vecchio sivigliano seduto a prendere il fresco nel suo portico, fa l'occhiolino e dice che la Iglesia está abierta e adelante, si quieres, passa, se vuoi. Sorpresa delle sorprese.
Non c'è chiesa sivigliana che non sorprenda per il suo oro e le sue sculture. Così barocchi e così melodrammatici, persino nella semplicità di San José. Che inizia a sapere di posti conosciuti e ad avere profumo di aria di casa. Poco più giù c'è calle Mateos Gago e chissà se è aperta anche la deliziosa chiesa di Santa Cruz. Sì, miracolo, pure Santa Cruz è aperta. Non si resiste alla tentazione di addentrarsi, come sempre, nella viuzza di fronte, sognando di poter ammirare almeno per una volta la sua altissima facciata. Ma è impresa impossibile: avrà ispirato molte chiese coloniali, ma a Siviglia la si potrebbe vedere tutta solo buttando giù un po' di case. E sarebbe un peccato. Meglio addentrarsi nella viuzza che le si apre davanti. Scoprire una nuova sfilza di lampioni in ferro battuto poco più in là. Ascoltare con un po' di sospetto i passi veloci che arrivano da dietro, che nella solitudine fanno pensare sempre a qualche thriller americano e trovarsi poi di fronte, chissà come, a nuestra señora, la torre de la Giralda, regina incontrastata dei cieli sivigliani. Alla fontana c'è un gruppo di italiani, che in uno spagnolo maccheronico chiede gentilmente se puoi fargli una foto e tu, in uno splendido italiano, gli chiedi se per caso sono di Genova, perché dall'accento si sente.