domenica 19 settembre 2010

No hay silencio que no termine: il libro di Ingrid Betancourt sul suo sequestro

Il libro di Ingrid Betancourt sul suo sequestro è in uscita. L'ex politica franco-colombiana ha raccontato in 700 pagine la sua esperienza nelle mani delle FARC, dal 23 febbraio 2002 al 2 luglio 2008, quando fu liberata da una spettacolare operazione dell'esercito colombiano, la Operación Jaque. Il libro, scritto in francese e poi tradotto in spagnolo con la supervisione della stessa Ingrid, ha per titolo un verso di Pablo Neruda, No hay silencio que no termine. Nei prossimi giorni ne parleranno probabilmente i media di tutto il mondo; oggi lo hanno fatto il quotidiano El tiempo di Bogotà, con una recensione che cerca di lavare l'immagine di Ingrid, in caduta libera da quando ha chiesto un indennizzo per il suo sequestro allo Stato colombiano, e il quotidiano cileno La Tercera, che pubblica un'intervista a Ingrid, firmata dallo scrittore colombiano Héctor Abad. E' la prima che la colombiana rilascia sul suo libro. Eccola in italiano.

- Come è nato il libro e perché è scritto in francese e non in spagnolo?
Forse l'ho scritto in francese inconsciamente, per poter avere una maggiore distanza dalla mia esperienza. Era così doloroso rivivere gli anni del sequestro che in un'altra lingua aveva come un piccolo filtro, una certa lontananza. Ho vissuto in Francia tutta l'infanzia e la prima adolescenza, per cui il francese mi viene naturale. La prima frase mi è venuta in francese e la prima cosa che ho voluto ricordare è stato uno dei miei tentativi di fuga. Da lì non mi sono più potuta fermare. Sono stata completamente sola per molti mesi. Ho cambiato il numero di telefono e di posta. Ero collegata al mondo attraverso il computer.
- Prima di scrivere il libro aveva raccontato ai suoi figli e a sua madre la sua esperienza?
No, per molto tempo non sono stata capace di raccontare niente ai miei figli né a mia madre. Non potevo, non mi veniva, non sapevo neanche da dove iniziare. Ero bloccata. Forse ho dovuto scrivere questo libro per portare ai miei figli e a mia madre quegli anni e quelle circostanze che mi è toccato vivere.
- Nel testo sostiene che durante il sequestro non si possono mostrare allegria né tristezza, per non dare un vantaggio ai sequestratori. Questo può creare un'abitudine. Ha potuto romperla?
Questa domanda fa parte delle mie riflessioni quotidiane. I sequestrati, coscientemente o incoscientemente, escono da questa esperienza segnati e dunque è molto difficile vivere normalmente. C'è una relazione con la verità che forse è un po' schizofrenica, nel senso che abbiamo vissuto in un mondo in cui ci dicevano sempre bugie. Molte volte nel mio mondo delle libertà continua ad esserci questo filtro. Ci sono difficoltà nel dire quello che si pensa. Allora riprendere la spontaneità è stato molto difficile.
- Una delle rivelazioni di No hay silencio que no termine è che Clara Rojas chiese il permesso per essere madre…
Tutto questo è stato molto umano, ho pensato molto se raccontarlo o no. Penso che quello che è successo è cosa per cui si deve sentire molto serena. La relazione con i figli è così essenziale che comprendo che lei abbia sentito che il sequestro la stesse spogliando della cosa più importante per lei, il diritto di essere madre. Adesso, non ho alcuna idea di quale sia stata la sequenza dei pensieri di Clara, perché in quel momento eravamo separate e distanziate e non siamo più tornate ad essere davvero amiche.
- Il caso di Emmanuel, il figlio di Clara Rojas, ha dato alla Colombia la convinzione chiarissima che non poteva esserci un bambino "prigioniero politico"
Sì, Emmanuel è stato una benedizione perché ha umanizzato l'"inumanizzabile". Credo che l'unica decisione umana presa da Manuel Marulanda (il fondatore delle FARC, morto nel 2008 NdRSO) nella sua vita sia stata liberare Emmanuel. Non credo sia stata spontanea, credo che Chávez abbia avuto molto a che vedere.
- Ma lui non lo ha liberato, perché non era nelle loro mani, ha liberato solo Clara Rojas
Credo che lui non sapesse che Emmannuel non era più nelle mani dei suoi miliziani. Lui aveva preso la decisione di liberarlo. E penso che questa decisione di liberare il bambino non sia stata affatto facile per le FARC. Quello che le FARC dicevano e credevano con grande convinzione era questo: "Questo bambino è nostro; quando crescerà sarà un guerrigliero". Guarda com'è la loro logica, perché questo è fondamentale: quando una guerrigliera rimane incinta di un altro guerrigliero, deve chiedere il permesso per tenerlo. Se non le danno il permesso deve abortire; se le danno il permesso, lei lo ha, le danno 3-4 mesi per stare con lui e poi lo consegnano a un miliziano. E questo bambino cresce con una famiglia di miliziani e quando compie 10-12 anni diventa guerrigliero.
- All'inizio si apprezza che prevale è la paura, ma quando passa il tempo si va perdendo la paura. E' così?
Ci sono molte paure e si scoprono poco a poco. Nel primo tentativo di fuga, con Clara, che nel libro non è raccontato, abbiamo fallito per la paura di morire. E' stato appena 10 giorni dopo il sequestro. Abbiamo camminato tutta la notte, aprendoci passo nella giungla più spessa, siamo cadute per burroni. Ci siamo spaventate al vederci; abbiamo avuto paura e abbiamo pensato: non saremo capaci. Allora ci siamo consegnate. Alla fine non c'era più paura: avevo sofferto tanto che avevo già accettato la morte come una cosa normale e quasi desiderabile.