mercoledì 8 dicembre 2010

Frammenti del discorso di accettazione del Premio Nobel di Mario Vargas Llosa

larepublica.pe ha uno speciale in cui segue passo a passo i giorni svedesi di Mario Vargas Llosa, in attesa del Premio Nobel per la Letteratura, che gli sarà consegnato domani. Non sono da meno i quotidiani spagnoli, che riportano appuntamenti e parole. Ed  è divertente vedere come questo scrittore dalla doppia nazionalità sia conteso tra peruviani, spagnoli e, addirittura, catalani: i quotidiani del Paese sudamericano sottolineano ogni parola dedicata al Perù, quelli spagnoli cercano la sua españolidad in ogni riconoscimento a Madrid e Barcellona, le città senza le quali, come ha confessato, "non sarebbe stato scrittore".
Ieri Vargas Llosa ha pronunciato il suo discorso di accettazione del Premio Nobel, s'intitola Elogio della Lettura ed è un appassionante viaggio nella sua vita, in cui rivendica il ruolo della cultura e dei libri nel rendere i popoli liberi e consapevoli, in cui critica qualunque forma di totalitarismo e di nazionalismo e in cui spende parole d'amore e d'affetto per la Francia, per la Spagna e, soprattutto, per il suo Perù. Ha regalato una bella dichiarazione d'amore a sua moglie Patricia, con cui vive da 45 anni e che si è commossa, come tanti altri, quando ha detto che "quando crede che mi sta sgridando, mi fa il migliore dei complimenti: "Mario, tu servi solo per scrivere!"". "Patricia è il Perù" ha detto, mandando in visibilio i peruviani e con voce che iniziava a rompersi per l'emozione. "E' la prima volta che un Premio Nobel piange" ha commentato Peter Englund, segretario dell'Accademia Svedese, ai quotidiani peruviani. La sua agente, Carmen Bacells, 85enne e lucida come pochi, agente e talent-scout di tutti gli scrittori latinoamericani più importanti (probabilmente è l'unica che può vantare tra i suoi clienti due Premi Nobel, Vargas Llosa e Gabriel Garcia Marquez), ha commentato, pure lei commossa, che "era il miglior modo per finire la sua vita di agente letteraria".
E' da ieri, da quando ho letto queste 13 pagine, che tutti i giornali di lingua spagnola hanno messo a disposizione sul web, che mi chiedo se tradurle o meno in italiano. Non condivido quasi nessuna idea politica di quest'uomo, difficilmente riesco a finire un suo articolo politico (anche se provo sempre a leggerli tutti), sono pochi i suoi libri che mi sono piaciuti, ma ci sono coerenze e intelligenze che si apprezzano a prescindere dai valori politici che separano e questo discorso è davvero uno dei più appassionanti che si possano leggere. 13 pagine sono tantissime per un blog, ma ci sono passaggi che meritano di essere letti, in questo elogio della lettura. Ve li presento qui sotto e se poi avete voglia di leggere tutto il discorso di Mario Vargas Llosa davanti all'Accademia Svedese, lo trovate qui, in .pdf. E' in spagnolo.

Ho imparato a leggere a 5 anni, nella classe del fratello Justiniano, nel Colegio de la Salle, a Cochabamba (Bolivia). E' la cosa più importante che mi sia successa nella vita. Quasi 70 anni dopo ricordo ancora con nitidezza come questa magia, tradurre le parole dei libri in immagini, abbia arricchito la mia vita, rompendo le barriere del tempo e dello spazio e permettendomi di viaggiare con il capitan Nemo 20mila leghe di viaggio sottomarino, di lottare con D'Artagnan, Athos, Portos e Aramís contro gli intrighi che minacciavano la Regina nei tempi del sinuoso Richelieu o di trascinarmi per le strade di Parigi, trasformato in Jean Valjean con il corpo inerte di Marius sulle spalle.
La lettura trasformava il sogno in vita e la vita in sogno e metteva alla portata del piccolo uomo che ero io l'universo della letteratura. Mia madre mi ha raccontato che le prime cose che ho scritto sono state continuazioni delle storie che leggevo perché mi dava pena terminassero o volevo cambiare il finale. E magari è stato questo quello che ho fatto per tutta la vita senza saperlo: prolungare nel tempo, mentre crescevo, maturavo e invecchiavo, le storie che hanno riempito la mia infanzia d'esaltazione e avventure.
Mi piacerebbe che mia madre fosse qui, lei si emozionava e piangeva al leggere i poemi di Amado Nervo e di Pablo Neruda, e anche il nonno Petro, dal grande naso e calvizie lucente, che celebrava i miei versi, e lo zio Lucho, che mi ha animato tanto a dedicarmi corpo e anima alla scrittura, anche se la letteratura, in quel tempo e luogo, desse così poco da mangiare ai suoi cultori. Tutta la vita ho avuto accanto persone così, che mi volevano bene e mi spingevano e mi contagiavano la loro fede quando dubitavo. Grazie a loro e, senza dubbio, anche alla mia testardaggine e a un po' di fortuna, ho potuto dedicare buona parte del mio tempo a questa passione, vizio e meraviglia che è scrivere, creare una vita parallela in cui rifugiarci contro le avversità che rende naturale lo straordinario e lo straordinario in naturale, dissipa il caos, abbellisce il brutto, eternizza il momento e rende la morte uno spettacolo passeggero.
Non è facile scrivere storie. Al diventare parole, i progetti si spegnevano sulla carta e le idee e le immagini morivano. Come rianimarli? Per fortuna lì c'erano i maestri per imparare da loro e seguire il loro esempio. (…)
Alcune volte mi sono chiesto se in Paesi come il mio, con scarsi lettori e tanti poveri, analfabeti e ingiustizie, in cui la cultura era privilegio di così pochi la scrittura non fosse un lusso solipsista. Ma questi dubbi non hanno mai asfissiato la mia vocazione e ho sempre continuato a scrivere, anche in quei periodi in cui i lavori per mangiare assorbivano tutto il mio tempo. Credo di aver fatto la cosa giusta perché, se fosse requisito necessario in una società raggiungere prima l'alta cultura, la libertà, la prosperità e la giustizia per far fiorire la letteratura, allora non sarebbe mai esistita. Al contrario, proprio grazie alla letteratura e alle coscienze che ha formato, ai desideri e agli aneli che ha ispirato alla disillusione del reale con cui torniamo dal viaggio a una bella fantasia, la civiltà è oggi meno crudele di quando i cantastorie iniziarono a umanizzare la società con i loro racconti. Saremmo peggiori di quello che siamo senza i buoni libri che abbiamo letto, più conformisti, meno  inquieti e non sottomessi e lo spirito critico, motore del progresso, non esisterebbe neanche. Chi cerca nella finzione quello che non ha dice, senza bisogno di dirlo, senza neppure saperlo, che la vita così com'è non basta per colmare la nostra sete di assoluto, fondamento della condizione umana e che dovrebbe essere migliore. Inventiamo le finzioni per poter vivere in qualche modo le molte vite che vorremmo avere quando appena disponiamo di una.
Senza i libri di finzione saremmo meno coscienti dell'importanza della libertà, perché la vita sia vivibile, e dell'inferno che diventa quando è violata da un tiranno, un'ideologia o una religione. Chi dubita che la letteratura, oltre a sottometterci al sogno della bellezza e della felicità, ci avverta contro ogni forma di oppressione, si chieda perché tutti i regimi impegnati a controllare la condotta dei cittadini, dalla culla alla tomba, la temono tanto da stabilire sistemi di censura per reprimerla e vigilano con tanto sospetto gli scrittori indipendenti. Lo fanno perché sanno il rischio che corrono lasciando che l'immaginazione scorra per i libri, quanto sono sediziose le storie quando il lettore confronta la libertà che le rende possibili e che in esse si esercita con l'oscurantismo e la paura che lo inseguono nel mondo reale. (…)

Da bambino sognavo di andare un giorno a Parigi perché, abbagliato dalla letteratura francese, credevo che vivere lì e respirare l'aria che avevano respirato Balzac, Stendhal, Baudelaire, Proust,
mi avrebbe aiutato a diventare un vero scrittore, che se non fossi andato via da Perù sarei rimasto uno pseudoscrittore della domenica. E la verità è che devo alla Francia, alla cultura francese, insegnamenti indimenticabili, come che la letteratura è tanto una vocazione come una disciplina, un lavoro e una testardaggine. Ho vissuto lì quando Sartre e Camus erano vivi e scrivevano, negli anni di Ionesco, Beckett, Bataille e Cioran, della scoperta del teatro di Brecht e del cinema di Ingmar Bergman, del TNP di Jean Vilar e l'Odeon di Jean Louis Barrault, della Nouvelle Vague e della Nouveau Roman  e i discorsi, bellissimi pezzi di letteratura, di André Malraux, e, forse, lo spettacolo più teatrale dell'Europa di quel tempo, le conferenze stampa e i tuoni olimpici del generale De Gaulle. Ma, forse, quello per cui ringrazio di più la Francia è la scoperta dell'America Latina. Lì ho imparato che il Perù era parte di una vasta comunità resa sorella dalla storia, dalla geografia, dalla problematica sociale e politica, da un certo modo di essere e dalla saporita lingua in cui parlava e scriveva. E che in quegli stessi anni si produceva una letteratura nuova e vigorosa. (…)

Non mi sembra che l'essermi convertito, senza volerlo, in cittadino del mondo, abbia indebolito quelle che si chiamano "le radici", i miei vincoli con il mio Paese, cosa che non avrebbe neanche molta importanza, perché, se così fosse, le esperienze peruviane non continuerebbero ad alimentarmi come scrittore né apparirebbero sempre nelle mie storie, anche quando sembrano succedere molto lontano dal Perù. Credo che aver vissuto tanto tempo fuori dal Paese in cui sono nato ha rafforzato di più quei vincoli, aggiungendo loro una prospettiva più lucida e la nostalgia, che sa differenziare l'aggettivo e il sostantivo e mantiene, riverberando, i ricordi. L'amore per il Paese in cui uno nasce non può essere obbligatorio, ma, come qualunque altro amore, è un movimento spontaneo del cuore, che unisce gli amanti, i padri e i figli, gli amici, tra di loro.
Il Perù lo porto dentro perché lì sono nato, cresciuto e mi sono formato  e ho vissuto quelle esperienze dell'infanzia e della gioventù che hanno modellato la mia personalità, hanno forgiato la mia vocazione e perché lì ho amato, odiato, goduto, sofferto e sognato. Quello che succede lì mi colpisce di più, mi commuove e mi esaspera più di quello che succede in altre parti. Non l'ho cercato né me lo sono imposto, è semplicemente così. (…)

Un mio compatriota, José María Arguedas, ha chiamato il Perù il Paese di "tutti i sangue". Non credo ci sia formula che lo definisca meglio. Questo siamo e questo portiamo dentro tutti i peruviani, ci piaccia o meno: una somma di tradizioni, razze, credenze e culture provenienti dai quattro punti cardinali. A me rende orgoglioso sentirmi erede delle culture preispaniche che fabbricarono i tessuti e i manti di piume di Nazca e Paracas e le ceramiche mochicas o incas mostrate nei migliori musei del mondo, dei costruttori di Machu Picchu, del Gran Chimú, Chan Chan, Kuelap, Sipán, dei tesori de La Bruja e del Sol e de la Luna, e degli spagnoli, che, con le loro bisacce, spade e cavalli, portarono nel Perù la Grecia, Roma, la tradizione giudeo-cristiana, il Rinascimento, Cervantes, Quevedo e Góngora, e la lingua dura di Castiglia che le Ande hanno dolcificato. E (sono orgoglioso) del fatto che con la Spagna sia arrivata anche l'Africa con il suo vigore, la sua musica e la sua effervescente immaginazione ad arricchire l'eterogeneità peruviana. Se scaviamo un po' scopriamo che il Perù, come l'Aleph di Borges, è in piccolo formato il mondo intero. Che straordinario privilegio, quello di un Paese che non ha identità perché le ha tutte!
La conquista dell'America fu crudele e violenta, come tutte le conquiste, ovviamente, e dobbiamo criticarla, senza però dimenticare, facendolo, che quelli che commisero quelle spoliazioni e quei crimini furono, in larga parte, i nostri bisnonni e antenati, gli spagnoli che andarono in America e lì si fecero creoli, non quelli che rimasero nella loro terra. Quelle critiche, per essere giuste, devono essere un'autocritica. Perché, al renderci indipendenti dalla Spagna, 200 anni fa, chi assunse il potere nelle antiche colonie, invece di redimere l'indio e dargli giustizia per gli antichi soprusi, continuò a sfruttarlo, con la stessa cupidigia e ferocia dei conquistatori, e, in alcuni Paesi, continua a decimarlo e sterminarlo. Diciamolo con chiarezza: da due secoli l'emancipazione degli indigenas è responsabilità esclusivamente nostra e non l'abbiamo realizzata. Questa continua ad essere una questione non risolta in tutta l'America Latina. Non c'è una sola eccezione a questo obbrobrio e a questa vergogna.
Amo la Spagna quanto il Perù e il mio debito con lei è così grande come la gratitudine che sento. Se non fosse stato per la Spagna non sarei mai arrivato a questa tribuna né a essere uno scrittore conosciuto e, forse, come tanti colleghi sfortunati, andrei nel limbo degli scrittori senza fortuna, senza editori, né premi, né lettori, il cui talento, forse, triste consolazione, si scoprirebbe nella posterità. In Spagna si sono pubblicati tutti i miei libri, ho ricevuto riconoscimenti esagerati, amici come Carlos Barral e Carmen Balcells e tanti altri che si sono impegnati affinché le mie storie avessero lettori. E la Spagna mi ha concesso la seconda nazionalità quando potevo perdere la mia. Mai ho sentito la minima compatibilità tra l'essere peruviano e l'avere il passaporto spagnolo perché ho sempre sentito che la Spagna e il Perù sono come il dritto e il rovescio di una stessa medaglia, e non solo nella mia piccola persona, ma anche in realtà essenziali come la storia, la lingua e la cultura. (…)

Detesto ogni forma di nazionalismo, ideologia, o meglio, religione, provinciale, di vista corta, escludente, che raglia l'orizzonte intellettuale e dissimula nel suo seno i pregiudizi etnici e razzisti, perché converte in valore supremo, in privilegio morale e ontologico, la circostanza fortuita del luogo di nascita. Insieme alla religione, il nazionalismo è stato causa delle peggiori carneficine della storia, come quelle delle due guerre mondiali e il salasso attuale del Medio Oriente. Niente ha contribuito tanto come il nazionalismo alla balcanizzazione dell'America Latina, al fatto che abbia sanguinato in tante contese insensate e litigi e che abbia speso astronomiche risorse per comprare armi, invece di costruire scuole, biblioteche e ospedali.
Non bisogna confondere il nazionalismo di paraorecchie e il suo rifiuto dell'"altro", sempre seme di violenza, con il patriottismo, sentimento sano e generoso, di amore per la terra in cui si è vista la luce, in cui sono vissuti gli antenati e si sono forgiati i primi sogni, paesaggio familiare di geografie, esseri amati ed episodi diventati pietre miliari della memoria e scudi contro la solitudine. La patria non sono le bandiere né gli inni, né i discorsi sugli eroi emblematici, ma un pugno di posti e persone che popolano i nostri ricordi e li tingono di malinconia, la sensazione calda che non importa dove siamo, esiste una casa a cui possiamo tornare. (…)

Il Perù per me un'Arequipa in cui sono nato, ma in cui non ho mai vissuto, una città che mia madre, i miei nonni e i miei zii mi hanno insegnato a conoscere attraverso i loro ricordi e le nostalgie, perché tutta la mia tribù familiare, come usano fare gli arequipeños, si è sempre portata con sé la Ciudad Blanca, nella sua vagabonda esistenza. E' la Piura del deserto, del carrubo e il sofferente asinello,a  cui i piuranos della mia gioventù chiamavano, "il piede estraneo", bello e triste soprannome, dove ho scoperto che non erano le cicogne quelle che portavano i bambini, ma che erano le coppie che li fabbricavano, facendo cose barbare che erano peccato mortale. E' il Colegio San Miguel e il Teatro Variedades dove per la prima volta ho visto salire sul palco un'opera scritta da me. E' l'angolo tra Diego Ferré e Colón, nel limeño quartiere di Miraflores, lo chiamavano il Quartiere Allegro, dove ho lasciato il pantalone corto per il lungo, ho fumato la mia prima sigaretta, ho imparato a ballare, a innamorare e a dichiararmi alle ragazze. E' la polverosa e tremante redazione del quotidiano La Crónica dove, a 16 anni, ho provato le mie prime armi di giornalista, mestiere che, con la letteratura, ha occupato quasi tutta la mia vita e mi ha fatto, come i libri, vivere di più, conoscere meglio il mondo e frequentare gente di tutte le parti e di tutti i tipi, gente eccellente, buona, cattiva ed esecrabile. E' il Colegio Militar Leoncio Prado, dove ho imparato che il Perù non era il piccolo ridotto della classe media in cui avevo vissuto fino ad allora confinato e protetto, ma un Paese grande, antico, irritato, disuguale e scosso da ogni tipo di tormenta sociale. Sono le cellule clandestine di Cahuide in cui, con un pugno di sanmarquinos, preparavamo la rivoluzione mondiale. E il Perù sono i miei amici e amiche del Movimiento Libertad con cui per tre anni, tra bombe, black-out e assassinii del terrorismo, lavoravamo in difesa della democrazia e della cultura della libertà.
Il Perù è Patricia, la cugina col nasino all'insù e carattere indomabile con cui ho avuto la fortuna di sposarmi 45 anni fa e che sopporta ancora manie, nevrosi e rabbie che mi aiutano a scrivere. Senza di lei la mia vita si sarebbe dissolta tempo fa in un uragano caotico e non sarebbero nati Álvaro, Gonzalo, Morgana né i sei nipoti che ci prolungano e rallegrano l'esistenza. Lei fa tutto e tutto lo fa bene. Risolve i problemi, amministra l'economia, mette ordine al caos, mantiene in riga i giornalisti e gli intrusi, difende il mio tempo, decide gli appuntamenti e i viaggi, fa e disfa le valigie, ed è così generosa che persino quando crede di sgridarmi mi fa il migliore degli elogi: "Mario, l'unica cosa per cui servi è scrivere" (…)

Una mattina piurana, da cui credo di non essermi ancora ripreso, mia madre mi rivelò che quel cavaliere in realtà era vivo (si riferisce a suo padre, che credette morto fino agli 11 anni, quando sua madre gli annunciò che era vivo e avrebbero vissuto insieme NdRSO). E che quello stesso giorno saremmo andati a vivere con lui, a Lima. Avevo 11 anni e da allora cambiò tutto. Perdetti l'innocenza e scoprì la solitudine, l'autorità, la vita adulta e la paura. La mia salvezza fu leggere, leggere buoni libri, rifugiarmi in quei mondi in cui vivere era esaltante, intenso, un'avventura dietro l'altra, in cui poteva sentirmi libero e ritornavo ad essere felice. E fu scrivere, di nascosto, come chi si concede a un vizio inconfessabile, a una passione proibita. La letteratura smise di essere un gioco. Divenne un modo di resistere all'avversità, di protestare, di ribellarmi, di scappare dall'intollerabile, la mia ragione di vita. Da allora e fino adesso, in tutte le circostanze in cui mi sono sentito abbattuto o colpito, sulla riva della disperazione, dedicarmi corpo e anima al mio lavoro di scrittore di favole è stata la luce che ha segnalato l'uscita dalla galleria, la tavola della salvezza che porta il naufrago alla spiaggia. (…)

Dalla caverna ai grattacieli, dalla garrota alle armi di distruzione di massa, dalla vita tautologica della tribù all'era della globalizzazione, le finzioni della letteratura hanno moltiplicato le esperienze umane, impedendo che uomini e donne soccombiamo al letargo, all'astrazione, alla rassegnazione. Niente ha seminato tanto l'inquietudine, rimosso tanto l'immaginazione e i desideri, come questa vita di bugie che aggiungiamo a quella che abbiamo grazie alla letteratura per essere protagonisti delle grandi avventure, delle grandi passioni che la vita vera non ci darà mai. Le bugie della letteratura diventano realtà attraverso di noi, lettori trasformati, contaminati da aneli e, per colpa della finzione, in perenne discussione con la mediocre realtà. Stregonerie che, all'illuderci di avere quello che non abbiamo, essere quello che non siamo, accedere a questa impossibile esistenza in cui, come dei pagani, ci sentiamo terreni ed eterni insieme, la letteratura introduce nei nostri spiriti l'anticonformismo e la ribellione, che sono dietro tutte le imprese che hanno contribuito a diminuire la violenza nelle relazioni umane. A diminuire la violenza, non sconfiggerla. Perché la nostra sarà sempre, per fortuna, una storia inconclusa. Per questo dobbiamo continuare a sognare, leggere e scrivere, il modo più efficace che abbiamo trovato di alleviare la nostra condizione mortale, di sconfiggere il carcoma del tempo e di trasformare in possibile l'impossibile.