lunedì 29 aprile 2013

El Corte Inglés, H&M, Mango e la maledizione del Bangladesh, dopo il crollo dell'edificio a Dacca

Il crollo di un edificio a Dacca, nel Bangladesh, costato la vita a 380 persone, sta avendo ampia eco in Spagna. Forse perché buona parte dei laboratori tessili in cui lavoravano le vittime serviva alcuni dei marchi spagnoli più famosi, sia in patria che all'estero, da El Corte Inglés a Mango, o forse perché la Spagna indignada e rabbiosa ha deciso di non farne passare più una ai signori del capitale senza scrupoli e senza diritti, ovunque compiano i loro crimini, siano la Grecia, l'Asia o la stessa Spagna.
Su eldiario.es un articolo racconta l'intreccio tra affari, potere, corruzione e assenza dei diritti dei lavoratori.
Il crollo dell'edificio di Dacca, spiega il quotidiano online, non è una tragedia del Terzo Mondo. E' una tragedia che tocca l'Occidente ben da vicino. Il Financial Times ha trovato tra le materie dell'edificio un documento in cui appare il nome di El Corte Inglés, con il numero di giacche da consegnare quotidianamente. E, oltre a El Corte Inglés, i laboratori tessili servivano altri marchi occidentali come Primark, The Children's Shop e Mango.
Tra le tante regole non rispettate dell'edificio ce n'era una essenziale: quella della costruzione. Sull'edificio erano stati fatti costruire tre piani in più, troppi per una struttura di cinque piani, tanti da mettere in pericolo la sua stabilità. La tragedia è stata annunciata dalle crepe apparse sulle pareti il giorno prima del crollo.
"Una compagnia situata al piano terra aveva ordinato al personale di non presentarsi al lavoro. Le altre hanno obbligato i propri lavoratori a seguire con i loro turni. I contratti con le imprese straniere obbligavano a consegnare un certo numero di capi al giorno. Non rispettarlo significa non solo perdere denaro, ma rischiare di rimanere senza contratto" scrive eldiario.es "Le crepe erano visibili. Ne avevano dato notizia i telegiornali del martedì. La Polizia aveva ordinato al proprietario di chiudere le porte fino all'ispezione. Gli ordini sono stati disattesi".
Il giorno del crollo i lavoratori si erano riuniti davanti all'edificio, rifiutandosi di entrare. Sono stati i loro sorveglianti, con la minaccia dei licenziamenti a chi non entrava, a spingerli a iniziare i turni di lavoro. Il crollo è stato alle 9.30 locali. Ed è da qui che parte la denuncia contro i marchi occidentali. "Sostengono di avere codici etici ben precisi su sicurezza, condizioni di lavoro e remunerazioni. Ma alla fine la priorità è che rispettino i contratti, affinché i negozi siano sempre riforniti". 
Gareth Price Jones, direttore della ONG Oxfam, richiama i consumatori occidentali alle proprie responsabilità: "Possiamo prendere decisioni che fanno la differenza. La cosa più facile è non preoccuparsi di quello che c'è dietro alle marche, ma possiamo anche scegliere di comprare abbigliamento che sia prodotto da catene trasparenti e non abusive.
Nel Bangladesh l'industria tessile è diventata una voce importantissima per il PIL, dà lavoro a, si calcola, 3 milioni di persone, ma a condizioni che sono inaccettabili per i lavoratori occidentali e che dovrebbero esserlo per qualunque Paese che aspiri a dare un futuro ai propri cittadini: "I lavoratori non hanno scelta" scrive ancora il quotidiano online "Ricevono un salario minimo di 37 dollari al mese, molto inferiore a quello dell'omologa industria cinese (la lotta al ribasso, badate bene, al ribasso, non per la qualità!, è tra Cina e Bangladesh, il che è tutto dire sulle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori). E' pertanto una fonte di manodopera a basso prezzo perfetta per le grandi marche. Inoltre alcune imprese del Bangladesh subappaltano parte delle loro commesse a compagnie minori, che pagano meno del salario minimo". Ma  l'industria tessile, pure in condizioni infraumane, è spesso l'unica speranza di lavoro per chi arriva dalle campagne in città.
Nel 2011 i sindacati del Bangladesh, con il contributo di sindacati stranieri, hanno proposto un sistema nazionale di ispezioni, fuori dal controllo del Governo, che avesse il potere di controllare che tutte le imprese sul territorio del Paese rispettino le norme e per chiudere quelle che non lo fanno. Il finanziamento di questo sistema sarebbe stato a carico delle multinazionali straniere, con circa 500mila dollari all'anno ognuna. Il piano è stato rifiutato (tra le imprese convocate ad analizzarlo anche Wal-Mart, Gap e H&M). "Sembrava loro troppo costoso e temevano le responsabilità legali derivanti dalle conseguenze di quel controllo. Non sono responsabilità molto diverse da quelle affrontate nei propri Paesi, ma è proprio per questo che cercano di spostare la produzione in Paesi come la Cina o il Bangladesh, con l'intenzione di ridurre al minimo i costi e di dimenticare le condizioni dei lavoratori" scrive eldiario.es. 
Che conclude spiegando che il titolo dell'articolo, che parla di maledizione del Bangladesh, è sbagliato: "Non esiste questa maledizione. Si tratta di decisioni economiche in un catena di produzione, che permette di fabbricare abbigliamento a basso costo e ottenere grandi benefici". Toccherà a noi, nelle nostre inquiete città occidentali, negli stores di Mango, H&M, Zara e tutte le altre, pensare a cosa c'è dietro il made in Bangladesh e agire di conseguenza.