martedì 21 maggio 2013

Schiave di Zara e dei marchi occidentali, nei laboratori clandestini di Buenos Aires

Non c'è solo l'Asia per le produzioni a basso costo dell'abbigliamento low-cost occidentale. Tempo fa Zara era stata denunciata in Argentina per la produzione dei suoi capi in laboratori clandestini, con personale tenuto in semi-schiavitù; il marchio spagnolo aveva cercato di giustificarsi assicurando di assegnare le commesse a fabbriche che rispettano i diritti dei lavoratori e garantiscono stipendi dignitosi; succede poi che queste imprese locali subappaltano le commesse a laboratori illegali e cosa ne può Zara, o qualunque altro marchio europeo che va a produrre nel Terzo Mondo, pur di non dover rispettare gli alti indici di sicurezza richiesti dalla UE e i diritti dei lavoratori, conquistati in secoli di lotte per i diritti umani. In un video su youtube, pubblicato dalla Fondazione Alameda, che denuncia le cattive pratiche di Zara, si legge che il marchio è stato denunciato in Argentina, Brasile, Cina, Spagna, Marocco e altri sette Paesi per riduzione in schiavitù, lavoro infantile e sfruttamenti di emigranti. Amancio Ortega, il patron di Zara, è l'uomo più ricco di Spagna e uno degli uomini più ricchi del mondo; il marchio, nel solo 2012, ha guadagnato 2,3 miliardi di euro (impossibile guadagnarne magari la metà e garantire una vita dignitosa agli operai che se la sono guadagnata con il loro lavoro?). 
eldiario.es pubblica oggi un articolo da Buenos Aires, in cui racconta la storia di un gruppo di donne boliviane, impiegate come schiave in un laboratorio clandestino che produceva capi di abbigliamento per Zara. Adesso sono rinate a nuova vita, grazie alla Fondazione La Alameda, che denuncia la schiavitù imposta dai marchi occidentali e che ha creato la cooperativa 20 de diciembre, in cui le ex schiave lavorano ancora come operaie di sartoria, ma con diritti e stipendi dignitosi. "Oggi producono, insieme ad altre cooperative formate da ex schiave e sfruttati della Thailandia e di altri posti, i marchi internazionali No chains e Dignity Returns, né conosciute né con campagne di marketing" scrive la giornalista Mariana Vilnitzky "I capi sono più cari del solito, ma in realtà valgono il loro prezzo. Con esso si pagano salari e una vita dignitosa per chi lavora. E' il minimo che dobbiamo pagare".
La storia di queste donne sfruttate nei laboratori clandestini di Buenos Aires, assomiglia molto a quella delle giovani costrette a prostitursi nei bordelli di qualunque città europea. Sono arrivate a Buenos Aires dagli altopiani andini con la promessa di un futuro migliore, di un lavoro sicuro e pagato dignitosamente, con il quale poter mettere da parte i risparmi necessari a comprare una casa e ad avviare un'attività nel villaggio d'origine. Per molte donne, quasi tutte di origine campesina, il viaggio a Buenos Aires è stato il primo della propria vita; in Argentina vengono loro ritirati i documenti e inizia la vita di schiavitù: "Lavoravamo tutto il giorno, dalla mattina alla notte, e dormivamo vicino alla macchina da cucire. Ci davano da mangiare rapidamente, in pochi minuti, e poi di nuovo a lavorare" racconta a Vilnitzky una delle ex schiave. Questa sorta di catena di montaggio in Argentina ha il nome di cama caliente, letto caldo, perché mentre una schiava dorme, un'altra usa la macchina da cucire e continua il lavoro. 
Vilnitzky paragona il sistema delle schiave-sarte a quello delle schiave-prostitute: "Le stesse pratiche di sequestro usate per produrre il nostro abbigliamento si usano per le reti di prostituzione in Europa, Asia e America LAtina. Sogni rubati di vivere in posti migliori. La prostituzione è vista peggio, ma la pratica dell'abuso è la stessa. Di fatto le mafie che trasportano le donne sarte hanno, secondo la Fondazione La Alameda, punti in comune con la mafia dei postriboli". Anche le schiave-sarte vivono in meccanismi del debito da cui non usciranno mai: una delle donne intervistate nell'articolo non ha mai ricevuto denaro per il suo lavoro, perché le venivano scontati il debito contratto per il viaggio, il vitto e alloggio nel laboratorio clandestino e la presenza dei suoi due bambini piccoli. Vivono anche nel terrore: sono donne mai uscite dai loro villaggi, con una scarsa formazione, facili da spaventare grazie alla loro ignoranza. "Mi dicevano che se fossi uscita da lì mi avrebbe preso la polizia, che gli argentini erano cattivi e mi avrebbero fatto del male. Non sapevo niente, non ero mai uscita dal mio villaggio, pensavo fosse vero" commenta una ex schiava. 
Mariana Vilnitzky racconta di essere tornata 'stordita' da una giornata nella cooperativa La Alameda, allo scoprire la schiavitù e l'illegalità che ci sono dietro i marchi più popolari d'Europa. E lo è stata ancora di più il giorno dopo, quando nel Bangladesh sono morti oltre 1000 operai di altri laboratori tessili di marchi europei, tra cui H&M, Zara, El Corte Inglés. Dopo la tragedia del Bangladesh, molti gruppi europei, tra cui H&M, Inditex, Benetton ed El Corte Inglés, hanno firmato un accordo con i sindacati locali, per permettere e finanziare i controlli indipendenti nei laboratori, i sindacati stanno lottando per avere migliori condizioni di lavoro e per aumenti salariali, a Dacca ci sono state varie manifestazioni operaie in questo senso. "Ma la cruda realtà è che al di là delle buone intenzioni, dopo il disastro, nessuno delle grandi imprese per cui producevano nei laboratori crollati è andato in carcere. Non ci sono responsabili legali. E siccome l'accordo e la pressione riguardano solo il Bangladesh, alcune imprese iniziano a vedere altre opportunità di sfruttamento meno visibile in Paesi come la Cambogia (dove, dopo il crollo del Bangladesh, sono morte due persone, in un altro crollo e senza uscire sui grandi media)" scrive nell'articolo. 
"E' importante che non diamo le spalle, che non ci accontentiamo del "si produce così dappertutto". Non sono solo le imprese che dovrebbero firmare gli accordi. Sono i Paesi. Esiste un'Organizzazione Mondiale del Commercio, ma nessuna organizzazione che vegli sui Diritti U,ani di chi produce per questo commercio. L'Unione Europea mette ostacoli a prodotti che suppone insalubri per i suoi cittadini, ma lascia passare senza problemi i lavori degli schiavi. Dobbiamo esigere un cambio profondo alla politica, insieme a ONG e sindacati. Questo abbigliamento, come qualunque altro prodotto realizzato in condizioni indegne, dovrebbe avere la vendita come minimo proibita nell'Unione Europea".
Il video da youtube, in cui si mostrano le condizioni di vita subumane degli operai utilizzati da Zara a Buenos Aires e le proteste di La Alameda.