lunedì 30 aprile 2012

Siviglia, il suo narcisismo e le confraternite, by Arturo Pérez Reverte

Arturo Pérez Reverte ha visto il film Grupo 7, di cui si è ampiamente parlato su Rotta a Sud Ovest (gli ultimi post sulle recensioni e la Siviglia inaspettata), e ne è rimasto entusiasta. Tanto da consigliarlo anche su Twitter, con parole che non sono affatto piaciute ai sivigliani (e probabilmente neanche a Mario Casas, visto che ha fatto i complimenti al regista per aver fatto parlare poco chi meno si capiva). La protagonista del film, accanto al gruppo di poliziotti che deve ripulirne le strade in vista della Expo92, è Siviglia. Ma una Siviglia diversa dagli stereotipi e anche per questo Pérez Reverte ne ha parlato con entusiasmo.
"Sbirri, drogati, puttane, gentaglia. La stessa vita. La Siviglia reale. Quella che mette a disagio e mai uscirà su Hola" ha scritto ieri sera Pérez Reverte "La Siviglia più reale di quell'altra burla di Ferie de Abril, Settimane Sante e Rocíos vari che ci vendono quotidianamente. Questa Siviglia squallida che era così nel 92 e continua a esserlo". Io mi sono entusiasmata, perché la triade che Siviglia "ci vende quotidianamente" mi stufa tanto quanto Roma-Firenze-Venezia quando si parla di Italia e ho voglia di avere chiavi di lettura diverse, siano conferme o proposte. Non viene voglia di scoprire com'è e dove si muove questa Siviglia scomoda, che Hola ignorerebbe?
Ma i sivigliani, che ti ripetono sempre che como Sevilla no hay otra (come Siviglia non ce n'è un'altra), aspettandosi il tuo cenno di consenso entusiastico, ci sono rimasti malissimo e hanno iniziato ad attaccare lo scrittore su Twitter. I sivigliani, del resto, ci rimangono sempre malissimo quando non gli dici che sono i più simpatici, i più accoglienti e i più gentili che abbia mai incontrato e che Siviglia è la gloria (che posso pure pensarlo, però ni muerta en la vida, lo direi a un sivigliano). Sono talmente convinti, vivono talmente in un mondo a parte (penso sempre a universi paralleli, che si scorrono accanto senza incontrarsi e senza interessarsi gli uni agli altri, una sensazione che mi dà solo Siviglia, tra le città in cui mi è capitato di vivere), che alla fine ti dispiace che ci rimangano male, perché, per una volta, sono sinceri e non stanno recitando il ruolo che pensano ti aspetti da loro.
Sono poche le cose che non sopporto dei sivigliani. E una di queste è il culto che hanno della propria città, la convinzione di vivere nella migliore città del mondo. "Ci hai fatto caso che ti dice che Siviglia è il miglior posto in cui vivere chi non è mai stato altrove?!", mi diceva in una conversazione di tempo fa un amico sivigliano, appena tornato in patria dopo due anni di Germania dietro a un amore tedesco andato poi male. E' probabilmente per quest'ignoranza di fondo (e il rifiuto di conoscere "perché Siviglia ha tutto e sto già nel miglior posto del mondo") che non sopporto il como Sevilla no hay otra che chiunque sia stato a Siviglia per più di qualche giorno si sarà sicuramente sentito dire, da più di un interlocutore.
E' un concetto che se rimanesse a un livello di conversazione superficiale, sarebbe solo l'ennesimo aneddoto da raccontare sulle idiosincrasie locali, ma essendo la sintesi di una mentalità e di un atteggiamento, finisce con il danneggiare una città davvero speciale e straordinaria.
Lo hanno dimostrato i permalosi interlocutori di Arturo Pérez Reverte, ieri sera, che si sono offesi nonostante lui sia l'autore del libro più bello mai scritto su Siviglia, La piel del tambor (La pelle del tamburo in italiano), uno dei pochi che abbiano saputo penetrare nell'anima della città attuale e abbiano saputo dare poesia alle sue idiosincrasie. Ma lo dimostrano anche le lacune di cui Siviglia è vittima e che si ritrovano descritte perfettamente in uno dei due articoli scritti in passato e che Arturo Pérez Reverte ha pubblicato su Twitter, quando si è stufato di dover rispondere a tanta indignazione sivigliana.
Così mi sono passata la serata di ieri a leggere questi due articoli, immersa in un'atmosfera sivigliana e familiare, descritta con affettuosa ironia da Arturo Pérez Reverte, trovandomi ad assentire, perché riconoscevo situazioni, frasi e persone. Questo amore che i sivigliani sentono per la loro città, questa ostentazione delle emozioni, di cui le processioni sono espressione, che fa sì che alla fine non se ne provi davvero nessuna, questa sostanziale freddezza di una città narcisista, che si mostra per quello che gli altri si aspettano che sia e che è difficile che faccia vedere la sua vera anima. A volte dubito ce l'abbia davvero, al vedere la sua vita scandita da trajes de flamenca, cervecitas e sevillanas e l'indifferenza con cui accoglie lo straniero, presa da se stessa, dai suoi ritmi e dalle sue occupazioni.
E non c'è cattiveria nel riconoscere i difetti e le mancanze, ma un'affettuosa indulgenza, quella che si ha sempre verso ciò che si ama, perché sono cose rassicuranti, al tornare a Siviglia. Sentire di nuovo il pesante accento delle conversazioni ascoltate nei bar, dove si va apposta a desayunar, a fare colazione, per immergersi in queste atmosfere de barrio, in cui gli stranieri sono pochi e il Betis, il Sevilla e l'ultima corrida del Fandi sono l'unica cosa che importa. Beccare un'altra processione spuntata da chissà dove, ma non importa, perché a Siviglia c'è sempre qualche Vergine dal nome inimmaginabile in cammino. E fermarsi da qualche parte a fare una foto, perché è impossibile uscire di casa a Siviglia senza una macchina fotografica in mano e non importa che Santa Cruz, la Giralda e il Guadalquivir non ne possano più, e ascoltare il commento divertito di qualche sivigliano/a di passaggio, che deve sempre chiamarti hija o cariño. E' rassicurante, è essere di nuovo a casa. E' Siviglia.
Ed è quello che ho pensato mentre leggevo questi due articoli di Arturo Pérez Reverte. E' Siviglia! Senza altri commenti possibili. Il verbo essere, del resto, non li ammette. E'. Punto.
Lascio le parti che mi sono piaciute di più e che, probabilmente, potranno riconoscere altri cultori di Siviglia.

(…) Nel fondo, anche se lo nega, quello che il 90% degli uomini sivigliani vorrebbe essere è Hermano Mayor della Macarena o del Gran Poder (due delle più prestigiose e antiche hermandades sivigliane NdRSO). Qui, essere l'Hermano Mayor di una confraternita unica è come essere presidente del Betis o del Sevilla: un'autorità. Magari ti rovini mentre eserciti la carica, ma non ti lasciano pagare nei bar e la gente cede rispettosamente il passo per strada. Chissà com'è la cosa che un buon amico mio, conosciuto scrittore andaluso, voltairriano e guascone, sposato con una bella sivigliana di peineta e mantilla nera, quando esce il Giovedì Santo al braccio della moglie, tutto elegante, con giacca scura e cravatta, si mette al collo, per essere all'altezza della signora e delle circostanze, la spettacolare medaglia dell'Instituto de Estudios Jienenses, che assomiglia a quella delle confraternite sivigliane, e la gente gli apre il cammino nella calle Sierpes come se fosse Curro Romero o Paco Gandía. Che è come essere, prima, capitano generale.
(…) Il capillita (l'uomo che vive per le Hermandades e sa tutto di loro NdRSO) si passa l'anno parlando della Settimana Santa, che, come tutto il mondo sa, è la cosa più grande del mondo. Vive per la sua hermandad, a cui dedica più tempo che alla famiglia; e quando agguanta un forestiero è capace di martirizzarlo per ore con la minuziosa descrizione di come il Cachorro ti fa venire la pelle di gallina al passare, mentre fa notte, sul puente de Triana (anche se, ovviamente, è impossibile capisca questo sentimento così grande se hai la disgrazia di non essere nato a Siviglia). In quanto a ideologia o posizione sociale, il capillita non ne ha una determinata e ti può finire addosso da qualunque ambiente. Non importa che sia ateo, baciapile, elettore comunista o fan dei programmi di Isabel Gremio. Si affratella con i suoi simili, piangendo lacrime vive quando, nella madrugá, esattamente all'1.45, vede passare per la calle Feria la Esperanza Macarena, questa Vergine che si è messa a lutto quando Joselito fu ucciso da un toro a Talavera, o quando ascolta le saetas vibranti e sentite, quasi aggressive, con cui sembra che Pepe Peregil, il  maestro, non canti ai Cristo, ma li rimproveri. O quando alle 5 in punto, in Castelar, sgrida il forestiero perché stia zitto, perché non gli lascia ascoltare il passo racheao, il suono delle espadrillas dei costaleros del Gran Poder, e dopo, quando si allontana il Nazareno con la croce sulle spalle e questo passo lungo e potente, si riempie d'orgoglio e ti dice solenne: "Questo sì che è Dio e non l'altro, che messo vicino a questo non è né Dio né niente".
(…) In realtà, dicano quello che dicano, il capillita è Siviglia, o la sintetizza. O forse Siviglia continua a essere quella che è grazie a questo singolare personaggio, depositario di un'eredità più sentimentale che religiosa, conservata in una città che considera come una proprietà privata ("Come sta oggi, la mia Siviglia!"), e che, per di più, lo è. Perché, per quanto si sforzino di imitare il modello, e tutta l'Andalusia, persino l'Andalusia grave e seria di sempre, si è impegnata a diventare una grottesca e maldestra imitazione del suo capoluogo e del suo folklore, Siviglia non è la Spagna, ma un'irripetibile città italiana del Rinascimento. Una città-Stato che va per fatti suoi e si basta con se stessa, perché ha in sé tutto quello di cui ha bisogno. Per avere, ha persino i suoi contrari: due città in una, Siviglia e Triana. Senza contare che ha due Vergini principali, due Cristi, il Betis e il Siviglia, Joselito e Belmonte e tutta serie intrecciata e duale, contraddittoria, che culmina in questo barocco delle confraternite, già inserita nei trattati d'arte, il rococò del rococò, che si alimenta di se stesso, riccio su riccio, trionfo assoluto sull'antico terrore medievale del vuoto.
(…) Forse per questo durante tutto l'anno Siviglia è la Settimana Santa; perché la Settimana Santa è, in fin dei conti, il mormorio del ricordo, il ritorno di vecchie sensazioni: l'odore delle torrijas fatte dalla madre, il nonno che si veste per la processione e si avvolge con la tunica del nazareno, la mano ferma del padre per strada, tra la musica e l'incenso, il tintinnio dei rosari d'argento delle Vergini, gli occhi impressionanti del nazareno incappucciato che ti guarda dai buchi del tessuto, le strade che sanno di primavera e gloria benedetta. Non si tratta più del culto di Dio, ma del culto della città che contiene tutta questa memoria.
(…) non è casuale che la Chiesa Cattolica non sia riuscita a controllare del tutto, nonostante i tentativi, la Settimana Santa sivigliana. E adesso la controlla meno che mai. Questa è la festa principale, l'omaggio che la stessa città concede a se stessa, alle sue apparenze e alle sue nostalgie. E' il rifugio e la consolazione: uno sperpero di generosità, orgoglio e paganesimo, nella ricerca disperata della sicurezza e dell'infanzia perduta.
(…) E quando, già con il chiarore del giorno, nell'angolo tra Relator e Parra, vedi venire da lontano la Macarena, allo stesso tempo splendida e ombrosa, con le candele spende e i ceri coperti dalle forme capricciose che la cera ha preso allo sciogliersi, con le occhiaie e afflitta sotto la luce cruda della mattina, dopo 12 ore di percorso per le strade, è possibile anche sentire un sivigliano qualunque, un uomo fatto, mormorare, guardandola assorto, un viene cansá (arriva stanca), che suona spezzato, come un singhiozzo. In realtà, Siviglia è la città dei bambini perduti.
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(...) Nonostante gli sforzi, quasi suicidi, di eroici paladini locali, per rompere la bolla in cui la città vive immersa in se stessa, la maggior parte degli sforzi culturali sivigliani passa per l'imbuto delle confraternite locali, struttura sociale intorno alle quali si ordina la vita pubblica. Il resto è secondario, non interessa. I Musei illanguidiscono, le mostre arrivano a contagocce, e solo se c'è Siviglia di mezzo, le librerie chiudono, le biblioteche non esistono o si ignorano. Se si trattasse di una città in cui impera la modestia, uno crederebbe che sente vergogna per quanto l'ha resa bella e immortale. Ma non è modestia, è egoismo autocompiaciuto, indifferenza a quanto non sia farsi belli il Giovedì Santo per uscire con la medaglia della confraternita al collo, dipingerla per la Feria prendersi una manzanilla a Las Teresas o Casa Casa Román, guardandosi intorno mentre si pensa, o si dice, che Siviglia è la cosa più grande del mondo e che disgrazia vive, chi non è nato sivigliano.
Tutte le volte che vado lì mi chiedo cosa potrebbe essere questa città se la smettesse di guardarsi nel suo specchio autistico e si aprisse al mondo, con la cultura come reclame e bandiera.(...)
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