venerdì 28 settembre 2012

vanitatis.com: Blancanieves è l'esaltazione della Spagna più profonda

Blancanieves esce oggi nelle sale spagnole, dopo aver entusiasmato i Festival di Toronto e di San Sebastián e subito dopo aver ottenuto la candidatura spagnola per la nomination a miglior film straniero ai Premi Oscar. Sta ricevendo recensioni entusiastiche anche sulla stampa spagnola, mai tenera con il cinema di casa.
Mi piace molto la recensione pubblicata da vanitatis.com, che esalta questa rappresentazione ed esaltazione della Spagna più profonda (ma sarebbe meglio dire Andalusia) e che è diversa dalle altre lette finora perché sembra scritta come un flamenco e la si legge in bianco e nero. E' una sensazione difficile da spiegare, ma mi sono sentita direttamente nel film, in questo cortijo dannato, sotto lo sguardo di fuoco di Maribel Verdu, che, da quanto si legge nelle recensioni, da sola, con la sua interpretazione, vale vedere il film (e se ci aggiungiamo il resto, chissà cosa dev'essere vedere Blancanieves con l'orchestra che suona dal vivo e le tempestose immagini in bianco e nero sullo schermo).
"La fiaba dei gratelli Grimm (il testo in spagnolo dice Green, ma ignoriamolo NdRSO), girato nella Spagna degli anni 20. Muto e in bianco e nero. Era un suicidio in tutta regola, ma Pablo Berger ha ottenuto il miracolo. Quest'anno sono state girate tre versioni della fiaba e, anche se costa crederlo, la migliore l'ha realizzata un bilbaino quasi sconosciuto. Alla favola sta indubbiamente meglio la Spagna profonda dell'atmosfera gotica e magniloquente di Hollywood (Biancaneve e il cacciatore di Rubert Sanders) e del surrealismo con tocchi di Bollywood (Specchio specchio di Tarsem Singh).
Ma più che con i film citati, tutti paragonano Blancanieves a The Artist. E qui bisogna fare una piccola parentesi, perché cinema muto se n'è sempre fatto. Anche negli ultimi anni. Kaurosmaku o Guy Maddin sono solo due esempi. Ma quasi mai, questo è vero, questi progetti hanno avuto vocazione commerciale. Questo è quello che unisce The Artist e Blancanieves. E in questo impegno evocatore hanno ottenuto che un film di queste caratteristiche, un artefatto così strano, poesia visuale che supera il concetto di pastiche, che a volte provoca la Sindrome di Stendhal, potesse riunire il criterio del pubblico, della critica, dei festival e delle Accademie.
Ma un mondo li separa. Quello che in The artist è americano e suona comico, in Blancanieves è categoricamente europeo e si veste di dramma. Il primo era un omaggio metalinguistico all'epoca dorata di Hollywood e il secondo è una reinterpretazione liberissima (soggetta a eccessi di montaggio che gli stanno meravigliosamente) del cinema di Abel Gance, Marcel L'Herbier, Murnau, Victor Sjöström o Erich von Stroheim.
Silenziosa Blancanieves. Parlano solo le nacchere. Ma quello di Berger è un film muto che a volte grida. L'arte della sinestesia e la magistrale messa in scena ci invitano ad ascoltare quello che vediamo soltanto. Suonano i dialoghi che non si dicono e che potrebbero aver scritto Buñuel o Valle Inclán. E' la Spagna del mostruoso. E in questo contesto fluiscono con maestria l'emozione e il dramma.
Il trionfo di Berger è aver saputo approfittare di un contesto così specifico per raccontare una storia così universale. I primi minuti del film sono impressionanti. La plaza de toro come scenario in cui vede luce il dramma di una bambina, figlia di torero e bailaora, condannata a un'infanzia disgraziata. Gli archetipi a cui rispondono i personaggi, cosa molto tipica del cinema muto, rompono i loro schemi per rappresentare qualcosa di più di un sentimento. Tutti gli attori brillano in questo lavoro. Gli enormi occhi di Sofía Oria, che interpreta la piccola Biancaneve, parlano da soli. Il ritratto della sua infanzia, la parte più estranea alla fiaba, meno convenzionale, è probabilmente la parte migliore del film.
Berger si avvicina, con il passare del film, sempre di più ai fratelli Grimm. Sempre dialogando con i riferimenti dello spettatore dalla distanza. Non è Biancaneve, ma Carmen; non è un palazzo, ma un cortijo (una specie di cascina italiana, come questa più o meno complessa, a seconda della ricchezza dei padroni NdRSO); i nani non sono ladri, ma toreri; non è uno specchio, ma una rivista rosa. La matrigna, incarnata perffettamente da una Maribel Verdú in permanente stato di grazia, si trova a metà del film con una Biancaneve adulta, Macarena García, che è tutta espressività.
E insieme viaggiano fino a un finale brutale. Pura emozione silenziosa. Sangue e arena, mentre il flamenco, al suono dei capotazos di una principessa della favola, suona come lo fanno i versi rotti di Jorge Manrique. L'opzione stilistica di Berger prende più forza, se è possibile, confermando che non si tratta di puro artificio e segno d'autore. Ci sono contesti, come la Spagna profonda che disegna Berger (quella che tanto odiamo e amiamo allo stesso tempo), che chiedono il bianco e nero gridando. Ci sono contesti in cui, nei finali felici, le pernici sono divorate dai cani". (in spagnolo "e vissero felicie  contenti" si dice "e vissero felici mangiando pernici" NdRSO)