E' morto in carcere, giudicato dalla Giustizia e
condannato dalla Storia. Ma quello che sorprende della morte di
Jorge Rafael Videla, scomparso due giorni fa in una prigione nei pressi di
Buenos Aires, è la reazione composta degli argentini. Nessuna celebrazione in
strada, come quando è stato giustiziato Saddam Hussein. Nessuna bottiglia di
champagne stappata, come quando gli Stati Uniti hanno assassinato Osama bin
Laden. La morte di un uomo non si celebra mai, dicono gli argentini, insegnando
il rispetto che si deve a un evento misterioso e superiore.
E' morto un uomo orrbile, ha detto Estela de Carlotto, la presidente delle
Abuelas de plaza de Mayo, che cerca ancora il nipote scomparso, il cui destino Videla si è portato nella tomba con sé. Così come si è portato
via la verità sulla fine di 30mila desaparecidos e oltre 400 nipoti, non ancora
ritrovati e chissà se sopravvissuti alle carceri e alle torture delle loro
mamme.
E' morto lasciando agli sconfitti dei giorni del terrore, la certezza che la
Giustizia terrena fa il suo coso, quando gli uomini si impegnano che così sia.
L'attore Juan Diego Botto, riparato bambino in Spagna con sua madre e sua
sorella, alla scomparsa di suo padre, anche lui attore e anche lui tra le
decine di migliaia di persone mai ritrovate, ha scritto su eldiario.es che
"la morte di un uomo non è motivo di celebrazione. Celebrare la morte con
un sorriso è territorio di quelli che hanno comandato sulla vita degli argentini
tra il 76 e l'83, quelli che hanno assassinato i nostri genitori e hanno voluto
interrarli nell'oblio, ma di sicuro non è il mio territorio, non è il
nostro". La celebrazione, dice l'attore, "è il fatto che l'Argentina
sia un Paese in cui i genocidi sono stati e vengono processati".
"Videla è morto in una cella e sarà interrato senza onori militari né
uomini di Stato. I suoi familiari potranno piangerlo e portargli fiori, un
privilegio che ha negato a noi vittime, ma i libri di storia non trasmetteranno
messaggi ambigui, contraddittori o equidistanti" continua Juan Diego. Che
conclude: "Non è una chimera pensare che i popoli possono sottomettere i
loro dittatori e farli inchinare davanti alla legge, non è una chimera che gli
sconfitti possano cambiare il corso della storia".
Sulle colonne di Clarin, Jorge
Lanata, uno dei giornalisti più mediatici d'Argentina, trasformatosi
nell'incubo dei Kirchner, per le denunce della loro ricchezza di origine poco
chiara, usa una frase che hanno ripetuto in tanti, dalla morte di Videla:
Muerto el perro, se acabó la rabia (morto il cane, è finita la rabbia), per
dire che, terminata la causa del problema, finiscono anche le conseguenze. Solo
che Lanata mette la seconda parte della frase in forma interrogativa: davvero è
finita la malattia, con la morte del cane? Lui non ne è convinto. Perché
"la dittatura non fu un UFO che atterrò a soggiogare milioni di argentini
onorati e pluralisti. Videla è stato un
assassino, ma un assassino emergente della sua epoca, della sua cultura e del
suo Paese".
Se l'Argentina ha imparato a fare i conti con i suoi dirigenti, violenti e
assassini, che hanno ordito un piano per liberarsi di un'intera generazione e
per impiantare un sistema economico di stampo liberista, come nel vicino Cile, non
ha ancora imparato a fare i conti con se stessa. "Chiaro che ci sono state
vittime, e molte, ma ci sono stati anche silenzi complici, abulia e
disinteresse. Nessuno uccide decine di migliaia di persone in un Paese che non
lo consente per azione o omissione. Anche se non è vero che "ogni Paese ha
quello che si merita", è facile depositare la colpa nell'altro e livellare tutte le responsablità. In un
Paese del Terzo Mondo, in cui un terzo della popolazione è al di sotto dei
livelli di povertà, c'è gente che non ha quello che si merita, ha solo quello
che le danno, che le tocca".
Passati i decenni dalla dittatura e dalle violente rese dei conti nella stessa
guerriglia, Lanata guarda verso l'Argentina e chiede ai compatrioti "cosa
rimane di Videla in noi, quali cose della dittatura militare sopravvivono in
una democrazia autoritaria, quella di un Governo che ha completato e animato i
processi contro i genocidi e, allo stesso tempo, si è preoccupato più dei
diritti umani del passato che di quelli del presente". Ci sono alcune
domande retoriche sulla differenza tra i militari e un gruppo di potere, quello
kirchnerista, che sostiene il monopolio del nazionale e del popolare, che ha
fantasie su un potere eterno, che sogna una rielezione a tempo indeterminato,
che continua a mantenere la logica dell'amico-nemico e che tende a
delegittimare 'l'altro'.
Il paragone in sé è piuttosto forte: il kirchnerismo non ha causato migliaia di
desaparecidos, non si è appropriato di centinaia di bambini, non ha ordito un
piano per assassinare gli oppositori politici. Ma non è questo che interessa a
Lanata: quello che lo preoccupa è la mentalità rimasta, dell''altro' come
nemico. "Videla è morto ieri, ma la cultura autoritaria del Partito
Militare sopravvive e attraversa la storia argentina del XX secolo e
dell'attuale. Deve passare ancora molta acqua sotto il ponte, affinché Videla
sia definitivamente morto".