domenica 19 maggio 2013

L'Argentina non celebra la morte di Jorge Videla e si interroga sugli sconfitti e su se stessa, dopo la dittatura

E' morto in carcere, giudicato dalla Giustizia e condannato dalla Storia. Ma quello che sorprende della morte di Jorge Rafael Videla, scomparso due giorni fa in una prigione nei pressi di Buenos Aires, è la reazione composta degli argentini. Nessuna celebrazione in strada, come quando è stato giustiziato Saddam Hussein. Nessuna bottiglia di champagne stappata, come quando gli Stati Uniti hanno assassinato Osama bin Laden. La morte di un uomo non si celebra mai, dicono gli argentini, insegnando il rispetto che si deve a un evento misterioso e superiore.
E' morto un uomo orrbile, ha detto Estela de Carlotto, la presidente delle Abuelas de plaza de Mayo, che cerca ancora il nipote scomparso, il cui destino Videla si è portato nella tomba con sé. Così come si è portato via la verità sulla fine di 30mila desaparecidos e oltre 400 nipoti, non ancora ritrovati e chissà se sopravvissuti alle carceri e alle torture delle loro mamme.
E' morto lasciando agli sconfitti dei giorni del terrore, la certezza che la Giustizia terrena fa il suo coso, quando gli uomini si impegnano che così sia. L'attore Juan Diego Botto, riparato bambino in Spagna con sua madre e sua sorella, alla scomparsa di suo padre, anche lui attore e anche lui tra le decine di migliaia di persone mai ritrovate, ha scritto su eldiario.es che "la morte di un uomo non è motivo di celebrazione. Celebrare la morte con un sorriso è territorio di quelli che hanno comandato sulla vita degli argentini tra il 76 e l'83, quelli che hanno assassinato i nostri genitori e hanno voluto interrarli nell'oblio, ma di sicuro non è il mio territorio, non è il nostro". La celebrazione, dice l'attore, "è il fatto che l'Argentina sia un Paese in cui i genocidi sono stati e vengono processati".
"Videla è morto in una cella e sarà interrato senza onori militari né uomini di Stato. I suoi familiari potranno piangerlo e portargli fiori, un privilegio che ha negato a noi vittime, ma i libri di storia non trasmetteranno messaggi ambigui, contraddittori o equidistanti" continua Juan Diego. Che conclude: "Non è una chimera pensare che i popoli possono sottomettere i loro dittatori e farli inchinare davanti alla legge, non è una chimera che gli sconfitti possano cambiare il corso della storia".
Sulle colonne di Clarin, Jorge Lanata, uno dei giornalisti più mediatici d'Argentina, trasformatosi nell'incubo dei Kirchner, per le denunce della loro ricchezza di origine poco chiara, usa una frase che hanno ripetuto in tanti, dalla morte di Videla: Muerto el perro, se acabó la rabia (morto il cane, è finita la rabbia), per dire che, terminata la causa del problema, finiscono anche le conseguenze. Solo che Lanata mette la seconda parte della frase in forma interrogativa: davvero è finita la malattia, con la morte del cane? Lui non ne è convinto. Perché "la dittatura non fu un UFO che atterrò a soggiogare milioni di argentini onorati e pluralisti. Videla è stato un assassino, ma un assassino emergente della sua epoca, della sua cultura e del suo Paese".
Se l'Argentina ha imparato a fare i conti con i suoi dirigenti, violenti e assassini, che hanno ordito un piano per liberarsi di un'intera generazione e per impiantare un sistema economico di stampo liberista, come nel vicino Cile, non ha ancora imparato a fare i conti con se stessa. "Chiaro che ci sono state vittime, e molte, ma ci sono stati anche silenzi complici, abulia e disinteresse. Nessuno uccide decine di migliaia di persone in un Paese che non lo consente per azione o omissione. Anche se non è vero che "ogni Paese ha quello che si merita", è facile depositare la colpa nell'altro e livellare tutte le responsablità. In un Paese del Terzo Mondo, in cui un terzo della popolazione è al di sotto dei livelli di povertà, c'è gente che non ha quello che si merita, ha solo quello che le danno, che le tocca".
Passati i decenni dalla dittatura e dalle violente rese dei conti nella stessa guerriglia, Lanata guarda verso l'Argentina e chiede ai compatrioti "cosa rimane di Videla in noi, quali cose della dittatura militare sopravvivono in una democrazia autoritaria, quella di un Governo che ha completato e animato i processi contro i genocidi e, allo stesso tempo, si è preoccupato più dei diritti umani del passato che di quelli del presente". Ci sono alcune domande retoriche sulla differenza tra i militari e un gruppo di potere, quello kirchnerista, che sostiene il monopolio del nazionale e del popolare, che ha fantasie su un potere eterno, che sogna una rielezione a tempo indeterminato, che continua a mantenere la logica dell'amico-nemico e che tende a delegittimare 'l'altro'.
Il paragone in sé è piuttosto forte: il kirchnerismo non ha causato migliaia di desaparecidos, non si è appropriato di centinaia di bambini, non ha ordito un piano per assassinare gli oppositori politici. Ma non è questo che interessa a Lanata: quello che lo preoccupa è la mentalità rimasta, dell''altro' come nemico. "Videla è morto ieri, ma la cultura autoritaria del Partito Militare sopravvive e attraversa la storia argentina del XX secolo e dell'attuale. Deve passare ancora molta acqua sotto il ponte, affinché Videla sia definitivamente morto".