lunedì 10 giugno 2013

La riforma delle pensioni in Spagna: non per demografia, ma per lotta di classe tra banchieri e classe media

La Spagna dovrà riformare nuovamente il suo sistema pensionistico. Lo esige l'Unione Europea, Mariano Rajoy ha invano tentato di smentire qualunque riforma, fino al memorandum di Bruxelles (ma si sa che ogni smentita del Presidente diventa un fatto pochi giorni dopo). Una commissione di saggi ha preparato una proposta di riforma che, come ha sottolineato nei giorni scorsi El Pais, mette la Spagna alla testa della più dura riforma che sia mai stata fatta in Europa al sistema delle pensioni. La controriforma (chiamiamo le cose con il loro nome) prevede slegare le pensioni dall'inflazione; il loro adeguamento viene legato a due indici, uno riguardante lo stato dei conti della Seguridad Social, lo Stato Sociale spagnolo, e l'altro la speranza di vita degli spagnoli. La precedente riforma, entrata in vigore il 1° gennaio di quest'anno, prevedeva l'aumento dell'età pensionabile a 67 anni entro il 2027 (attualmente gli spagnoli vanno in pensione a 65 anni) e 37 anni di contributi versati (attualmente sono 35 anni e 6 mesi); ed entro il 2022 aumenterà il numero di anni su cui calcolare la pensione,d a 15 a 25.
"A questi tagli già previsti bisognerà sommare adesso gli altri due, se niente cambia durante l'iter parlamentare" commenta El Pais "La riduzione delle pensioni future in funzione dell'incremento della speranza di vita e l'aggiornamento annuale delle prestazioni secondo la salute dei conti della Seguridad sociale, attraverso una formula che, se non intervengono entrate straordinarie nel sistema, può tradursi in perdita del potere d'acquisto delle pensioni attuali e, soprattutto, future".
"Costa trovare un Paese in Europa che sta applicando tanti meccanismi di risparmio contemporaneamente" commenta ancora il quotidiano madrileno.
Per spiegare questi nuovi tagli alle pensioni, i media ricorrono alle solite giustificazioni, utilizzate anche in Italia in situazioni analoghe: l'aumento della speranza di vita, il crollo delle nascite e, mano a mano, l'uscita dal lavoro delle generazioni del baby boom, le generazioni, cioè, nate tra gli anni 50 e 60, che aumenterà il numero di cittadini a cui si dovranno pagare le pensioni, diminuendo, contemporaneamente, il numero di lavoratori in grado di pagarle.
Ma nel suo blog di publico.es Juan Torres López, Cattedratico di Economia Applicata dell'Università di Siviglia, spiega tutto il suo scetticismo sulle riforme delle pensioni, a cui ricorre l'Europa per smantellare uno dei bastioni del suo Stato Sociale. "Le banche e le grandi compagnie di assicurazioni, i cui rappresentanti hanno grande maggioranza nel gruppo di saggi creato dal governo per avere le chiavi della nuova riforma, sono impegnate da molti anni a gestire a proprio vantaggio il grande volume di fondi che muovono le pensioni pubbliche. Con tanta liquidità, come quella che gestisce la Seguridad Social, si possono ottenere grandi guadagni, in mercati finanziari come quelli di oggi, in cui le nuove tecnologie permettono di investire con vantaggi a una velocità di 250 milioni di dollari al secondo" scrive il professore.
Dopo aver spiegato come banche e assicurazioni abbiano cercato di spaventare i cittadini circa la sostenibilità delle pensioni del futuro, con rapporti di economisti debitamente finanziati, in modo che affianchino le loro pensioni pubbliche con piani privati, e dopo aver sottolineato come le fosche previsioni di deficit dei conti dei sistemi pubblici delle pensioni non si siano mai avverati, Torres López spiega come tutte queste argomentazioni siano in realtà false e servano interessi specifici che niente hanno a che vedere con la sostenibilità del sistema.
Nel libro che ha appena pubblicato con Vicenç Navarro (uno degli opinionisti prediletti di Rotta a Sud Ovest sui temi economici e politici), Lo que debes saber para que no te roben la pensión, spiega come la riforma delle pensioni sa in realtà un ulteriore tassello nella lotta di classe in corso negli ultimi decenni, con l'arricchimento dei banchieri e accoliti e l'impoverimento delle classi medie e medio-basse. "Possiamo affermare che queste argomentazioni sono false perché, supponendo che sarebbe adeguato ottenere la sostenibilità equilibrando ingressi e spese, non possiamo agire solo sulle spese, ma anche sulle entrate. E risulta falso che le entrate del sistema pensionistico dipendano solo da variabili demografiche, in particolare l'aumento della speranza di vita. Dipende anche da altre variabili. Che non si citano mai. Una di queste, per esempio, è l'occupazione, un'altra il livello del salario, e, pertanto, la disuguaglianza".
Per spiegare il concetto l'autore usa un esempio facile: "Mettiamo che finanziare le pensioni pubbliche costi 7 euro, che le entrate totali di una società siano 40 euro, divisi al 50% tra i proprietari del capitale e i dipendenti e che questi dedichino la metà dei loro salari a finanziare le pensioni, cioè, 10 euro. Pertanto, in questo caso ci sarebbero 3 euro di surplus  (10-7=3) nel sistema delle pensioni, denaro che avanza per il loro finanziamento. Ma adesso supponiamo che si siano applicate politiche molto ingiuste, che diminuiscono i salari a favore dei redditi da capitale, facendo che a queste ultime corrispondano 30 euro e ai dipendenti solo 10 euro. Se accettiamo che la popolazione lavoratrice e i pensionati continuano a essere gli stessi, alle pensioni andranno solo 5 euro e, pertanto, non ci sarebbe denaro sufficiente per pagare le pensioni e il sistema avrebbe un deficit di 2 euro (5-7= -2)."
Dunque, conclude Torres López, "è facile provare che gli ingressi con cui si finanziano le pensioni pubbliche non si deteriorano solo perché viviamo di più e c'è meno gente che lavora", il sistema può avere u deficit anche "se la massa salariale diminuisce, sia perché c'è meno lavoro sia perché i dipendenti ricevono uno stipendio inferiore". Il problema delle pensioni pubbliche non è l'aumento della speranza di vita in sé, ma il fatto che sia accompagnata da politiche di austerità, "che creano disoccupazione e che pertanto fanno sì che ci siano meno contributi versati. E, soprattutto, la maggiore disuguaglianza dei redditi, che si viene realizzando negli ultimi anni".
"Quello che c'è dietro è in realtà un conflitto di interessi tra gruppi sociali, tra quelli in alto e quelli in basso, tra banchieri e finanzieri e l'immensa maggioranza della popolazione, che vive del proprio salario, tra proprietari del capitale e dipendenti. Detto più chiaramente, è la lotta di classe. Questo conflitto che dicono che non esiste più, per farci credere che gli affari sociali siano neutri e che li possano sistemare solo i tecnici, attraverso formule matematiche (come quelle del gruppo di saggi del PP), che nessuno, a parte loro, può capire. La verità è esattamente l'opposto. Il futuro delle pensioni pubbliche non dipende da queste formule, ma dalla forza che hanno i dipendenti per difendere i loro diritti e per assicurare che le loro entrate non diminuiscano costantemente, come sta succedendo".