venerdì 9 novembre 2012

Dai licenziamenti di Iberia ai paralleli tra USA e Venezia: storie di ricchi e disuguaglianze

Iberia licenzierà 4500 persone, un terzo dei suoi dipendenti, è notizia di oggi. La notizia di ieri è che la stessa compagnia aerea ha lanciato un'OPA da 113 milioni di euro sulla controllata low-cost Vueling, una delle poche compagnie aeree low-cost in grado di competere con Ryanair (quando si parla di eccellenze spagnole). La contraddizione, nella Spagna della crisi, non sorprende.
"Iberia lotta per la sua sopravvivenza" ha affermato Willie Walsh, l'amministratore delegato di IAG, la società che controlla Iberia e British Airways. I numeri parlano di una riduzione dei guadagni del 98% tra gennaio e settembre 2012 rispetto allo stesso periodo del 2011: sono passati da 338 milioni a 6 milioni. E il risultato si mantiene positivo grazie alle misure fiscali, perché le perdite prima delle imposte sono di 169 milioni di euro.
I sindacati spagnoli, che sono in guerra con Iberia da mesi, per la creazione della compagnia low cost Iberia Express, con sostanziale riduzione dello stipendio degli equipaggi, sono adesso indignati. Il piano di licenziamenti è, sostengono, "un attacco brutale dei britannici", è "una condanna a morte della compagnia, della sua spagnolità e delle sue infrastrutture spagnole". British Airways, praticamente, vuole assicurarsi Iberia e il suo gioiello, l'aeroporto di Madrid, con i migliori collegamenti verso l'America Latina, "gratis". La prova, secondo i sindacati, è che prima della fusione Iberia aveva 26mila dipendenti e con questo nuovo piano ne avrà 12mila, mentre British Aiways continua ad assumere e arriverà a 50mila impiegati.
I licenziamenti di Iberia non potevano passare inosservati in Spagna, soprattutto perché sono davvero brutali nei numeri, arrivano in un periodo di crisi e in una compagnia che è stata per anni uno dei fiori all'occhiello del marchio Spagna.
Se n'è parlato anche su Twitter, dove un utente ha scritto che "tutti i collettivi con privilegi finiscono con il cadere (controllori, piloti, ecc), mancano solo i politici". E' un discorso, quello dei collettivi "privilegiati", che in Spagna ha molto successo, soprattutto quando si parla del settore aereo. Un po' perché i piloti e i controllori hanno la puntuale capacità di rovinare ponti e vacanze con i loro scioperi. Un po' perché guadagnano molto di più della media degli spagnoli (anche nel momento di maggior successo dell'economia spagnola, la maggior parte dei lavoratori non guadagnava più di 1000 euro, questo non bisogna dimenticarlo). E gli spagnoli, è cosa che colpisce sempre, sono animati da molta mala leche: non è un'offesa, i primi a riconoscere la mala leche endemica, il rancore e il malumore, si potrebbe tradurre, sono gli stessi spagnoli, con l'autoironia e il sarcasmo di cui sono felicemente dotati.
Ma è giusto che passi il messaggio che chi guadagna bene è un privilegiato? Davvero dobbiamo pensare che chi lavora e guadagna il sufficiente, per pagarsi serenamente il mutuo della casa, per mandare i figli all'università, senza dover selezionare il migliore di loro, per andare in vacanza tutti gli anni, per fare shopping, avere una buona vita culturale, tra teatri, cinema e ristoranti, e togliersi gli sfizi che ha voglia, è un privilegiato? Non dovrebbe essere questa la regola? Non dovremmo ribellarci all'idea che chi lavora e guadagna bene sia un privilegiato e non dovremmo esigere che chiunque lavori abbia la possibilità di guardare serenamente al proprio futuro? Perché se si lavora e non si può progettare il futuro, si è sfruttati, non si è lavoratori.
Personalmente non ho niente contro chi lavora e guadagna bene: se un pilota di Iberia guadagna circa 200mila euro all'anno, mi sembra perfetto, viste le responsabilità, gli stress e lo stile di vita. Mi sembra giusto che chi lavora guadagni. Magari mi impressiona di più, per dire, José Luis Cebrián, il presidente del Grupo Prisa, che guadagna 14 milioni di euro all'anno (1,16 milioni al mese) e vuole licenziare un terzo della redazione di El Pais, senza ritoccarsi lo stipendio, con cui si pagherebbero 400 giornalisti, perché deve ripagare i debiti del suo Gruppo. Ma non me la sentirei di indicare alla pubblica disapprovazione né i piloti né i giornalisti di El Pais che godono dei vecchi contratti (vorrei che quei contratti fossero estesi ai più giovani, non che fossero tolti ai più anziani, sono per l'estensione, non per la riduzione dei riconoscimenti del lavoro).
Eppure nella Spagna della crisi il messaggio che sta passando è che chi ha uno stipendio buono è un privilegiato; i media si occupano di indicare al pubblico ludibrio piloti, controllori, ma anche professionisti e dipendenti pubblici, come se rubassero il proprio stipendio, come se guadagnare bene fosse una colpa e non un diritto. Ed è questo che fa pensare a tante cose, a come le classi privilegiate siano riuscite a imporre il proprio punto di vista ai più poveri e a farli ragionare non come persone preoccupate della società in cui vogliono vivere, ma solo delle proprie tasche e dell'invidia sociale. Se c'è una frase che odio, e che gli spagnoli usano molto, con molta rabbia, come se gli altri dovessero rendere continuamente conto, si parli della Famiglia Reale, dei servizi sociali o della classe politica, è "con le nostre tasse", "con i nostri soldi": le tasse non più come strumento per garantire servizi e uguaglianza, ma come alibi per impedire l'estensione dei diritti e il riconoscimento del lavoro. Non più strumento di solidarietà, ma alibi dell'egoismo, della mediocrità e, in definitiva, della povertà.
Stamattina ho letto un bell'articolo su elconfidencial.com, si intitola La ribellione dei ricchi e la loro teoria della fonte del potere. Tutto parte da un dato: tra il 1980 e il 2007 la disuguaglianza sociale negli USA è aumentata del 135% e l'1% della popolazione controlla il 23,5% della ricchezza (in Spagna l'1% controlla il 18,3%). Com'è possibile questo aumento vertiginoso e vergognoso? Secondo lo studio The Rise of the Super-Rich della rivista American Sociological Review, "a partire dal 1980, i ricchi hanno saputo imporre il proprio criterio nel Congresso, i sindacati hanno perso potere, sono diminuite le tasse sui redditi alti e, insomma, l'1% più ricco non ha smesso di accumulare ricchezza, mentre il resto della società l'ha persa". La cosa interessante, riportata dall'articolo, è che dalla presidenza di Franklin D. Roosevelt in poi, grazie alle successive lotte per i diritti civili e per lo Stato Sociale, e grazie alla presenza del sindacato, la disuguaglianza sociale era diminuita fino al punto che, negli anni 70, l'1% più ricco controllava l'8,9% della ricchezza nazionale (dal 1978 l'aliquota iù alta del sistema fiscale è scesa dal 39% al 15%, con le conseguenze immaginabili.
L'articolo fa riferimento anche a un libro scritto dalla giornalista Chrystia Freeland, capo-redattore di Reuters, Plutocrats: The Rise of the New Global Super-Rich and the Fall of Everyone Else, in cui traccia un interessante paragone tra gli Stati Uniti e la Repubblica di Venezia del XIV secolo. "Nel 1315, quando Venezia si trovava all'apogeo del suo potere economico, le persone più ricche iniziarono a far pressioni per leggi a loro favore. Si creò così un veto ufficiale alla mobilità sociale, il libro d'oro, che era come un registro della nobiltà e lasciava fuori dal sistema chi non era iscritto". Venezia iniziò così a perdere il proprio dinamismo economico, fino a essere, nel XVI secolo, più piccola anche per numero di abitanti, e senza riuscire più a recuperare il suo antico splendore. Un po' quello che succede oggi, spiega la giornalista, paragonando le richieste della nobiltà veneziana a quelle dei plutocrati statunitensi, che sono riusciti a far legiferare a proprio favore dalla presidenza di Reagan in poi. La conclusione di elconfidencial.com, e di Freeland, è che le disuguaglianze sociali sono attribuibili non alle crisi economiche o ai mercati, ma alle scelte politiche: "I lavoratori e la classe media hanno solo due modi di ottenere una distribuzione progressiva della ricchezza: attraverso la politica e il mercato. La disuguaglianza andrebbe dunque per mano con il declino dei partiti di sinistra (che lavoravano per la distribuzione della ricchezza nelle sfera politica) e dei sindacati (che spingevano nel mercato)".
Un articolo interessante, che spiega le influenze delle classi agiate, loro sì privilegiate, per continuare a mantenere la propria ricchezza, a discapito della società, e che fa riflettere su come abbiano saputo influenzare non solo la politica, ma anche i valori e la cultura della classe media, spingendola a una mentalità in proprio favore. Si potrà mai avere una società più giusta e si potrà mai esigere che il lavoro torni a essere pagato così come è dovuto, fino a quando la classe media riterrà privilegiati non quelli che pagano l'1% di tasse su patrimoni ingentissimi, mentre lei paga fino al 30%, ma quelli che, lavorando in modo professionale, sono giustamente pagati?
L'uscita dalla crisi implica anche una sferzata di valori e rivendicazioni.